di Luca Carofiglio

Intervista al pentito calabrese Bonaventura: «La 'Ndrangheta è come una mamma»
BARI – Ha più di cent’anni di vita e grazie al silenzio e all’omertà è riuscita a diventare nel nuovo millennio l’associazione mafiosa più potente d’Italia, superando per volume d’affari sia Cosa Nostra che la Camorra. Parliamo della ‘Ndrangheta, l’organizzazione criminale calabrese i cui “tentacoli” sono ormai presenti e diffusi in tutta la Penisola.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La sua forza si basa sul “vincolo di sangue”: si tratta infatti di “un’impresa a conduzione famigliare” in cui i vari componenti sono legati tra loro da rapporti di “sacra” parentela. E ciò comporta la quasi inesistenza del concetto di tradimento tra chi ne fa parte.     

C’è chi però, sfidando la “Picciotteria”, ha deciso di “parlare”. È il caso del 48enne Luigi Bonaventura (nella foto), ex boss della cosca crotonese Vrenna-Bonaventura, che dal 2007 è diventato collaboratore di giustizia. Lo abbiamo intervistato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Com’è la vita da collaboratore di giustizia?

Per niente facile: bisogna stare attenti e con gli occhi aperti, la vendetta è sempre dietro l’angolo. Tra l’altro dal 2014 vivo senza un programma di protezione, quel servizio che tutela chi aiuta lo Stato a combattere le mafie testimoniando nei processi. Mi è stato revocato per aver rifiutato alcuni trasferimenti in certe località, dopo aver denunciato più volte la sua non funzionalità sul piano della sicurezza e del reintegro sociale. Insieme con mia moglie e altre persone mi occupo ora dell’associazione “Sostenitori dei collaboratori di giustizia e dei testimoni di giustizia”: cerchiamo di farci sentire affinchè le leggi vengano adeguate per salvaguardare maggiormente queste figure e le loro famiglie.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Lei del resto è venuto meno al forte vincolo che lo legava alla ‘Ndrangheta.

Sì, perché la ‘ndrangheta è una tribù, uno stile di vita, una filosofia, una cittadinanza. È un tipo di mafia particolare perchè mette al centro il valore della famiglia. La sua compattezza si basa soprattutto su un “vincolo di sangue” che impedisce troppi tradimenti. Ma a quelle idee, a quei codici arcaici e “cavallereschi” si aderisce inconsapevolmente perché si cresce in quegli ambienti, con quel tipo di cultura e con quel sistema di educazione. Non si ha molta scelta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Parliamo però di una famiglia “allargata”…


Certo, si è ‘ndranghetisti se si nasce all’interno di una famiglia di ‘Ndrangheta, ma ciò comporta che tutti i “colleghi” diventino automaticamente “parenti”. Per questo si parla di “mamma ‘ndrangheta”: l’organizzazione è infatti come una madre che ti controlla richiamandoti sempre alle tue origini e al tuo mondo. Questa è anche la definizione della Locride, la terra dove tutto è nato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ha parlato di “educazione”: che cosa si intende?

Sin da piccoli si viene formati a essere dei criminali. Ti inculcano i valori del rispetto e della fedeltà e ti insegnano ad essere astuto, indottrinandoti anche con racconti, storie e film violenti e cruenti. In ogni caso si cresce a contatto con pistole e fucili a pompa: gli zii e i papà te li fanno vedere e ti spiegano come pulirli. Persino le madri ti addestrano nel difenderti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La scuola e la società in generale sono escluse dalla vita di un ‘ndranghestista?

Prima sì, oggi invece si tende a mandare i propri figli all’università per permetter loro di diventare ad esempio medici o commercialisti. Ma non è certo un gesto d’amore: all’organizzazione servono competenze, non fosse altro per curare un latitante o mettere a posto i conti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Com’è strutturata l’associazione?

Non esiste un capo assoluto come per Cosa Nostra: c’è invece un solido accordo tra le varie famiglie (le ‘ndrine). Più ‘ndrine formano una “locale”, cioè una cosca che agisce sotto un boss simbolico che solitamente fa parte della famiglia più grossa. Tutti i capi di una locale si confrontano poi con i “capo crimine”. All’interno delle famiglie ci sono comunque diverse cariche: la più alta è quella di “capo bastone”, quelle minori sono “picciotto”, “camorrista” e “sgarro”. Quest’ultima ai miei tempi si otteneva con il ferimento di un rivale o di un carabiniere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Organizzazione, educazione, fedeltà: come si fa a scappare da tutto ciò?

Non è facile, anche perché per loro è un gioco da ragazzi ritrovarti. Per ciò credo che il protocollo ideato dal giudice Di Bella relativo alle donne che trovano il coraggio di fuggire con i propri bambini debba essere rafforzato. Tra l’altro bisognerebbe chiedere a queste donne il distacco totale dai mariti, ad esempio usando come arma il divorzio, che per i mafiosi rappresenta un enorme disonore. Insomma bisogna recidere il cordone ombelicale che ci lega alla “mamma”, perché quando la ‘Ndrangheta chiama c’è il grosso rischio di ritrovarsi di nuovo all’interno della sua pancia.


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