Bari, la statua di Piccinni non ha più in mano la penna d'oca: si è spezzata
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giovedì 11 giugno 2020
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di Marco Montrone - foto Valentina Rosati
Si tratta di un pezzo già in passato sparito nel nulla e rimesso al suo posto nel 1984, durante i lavori di restauro della scultura, realizzata da Gaetano Fiore. Fu l'artista Mario Piergiovanni a creare la nuova penna, restituita così al musicista che proprio con quello strumento aveva scritto opere quali “La cecchina”, “Il re pastore” e “Le donne vendicate”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ora però quella piuma è nuovamente scomparsa. Ma quando?
Nel 2015 immortalammo il monumento in un servizio sulle principali statue baresi e la penna c’era. Nel 2017 la fotografa Franca Foccis pubblicò sui social una sua istantanea e la piuma si trovava regolarmente al suo posto. Ma nel gennaio scorso, scorrendo le immagini editate durante le celebrazioni per i 292 anni dalla nascita del musicista, si può notare la sua assenza.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
All’epoca non se ne accorse nessuno (neanche noi), ma passeggiando nei giorni scorsi sul corso principale di Bari, ci siamo resi conto della clamorosa mancanza di questo “oggetto”. La splendida opera infatti, inserita tra i giardini di piazza Massari e il rosso edificio di Palazzo Diana, appare inequivocabilmente privata della sua piuma.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
In realtà, ponendosi sul profilo destro di Piccinni e zoomando notevolmente, è possibile distinguere un pezzo rimanente della penna, che quindi più che sparita appare spezzata.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Insomma la scultura raffigurante il più importante personaggio barese della storia è stata ferita e rovinata. Da che cosa? Può essere stato il vento a portarsela via o un atto di vandalismo ben mirato. Non lo possiamo sapere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Abbiamo comunque chiesto lumi all’assessore alle Culture del Comune, Ines Pierucci. «Ne sono a conoscenza – ci ha detto -, me ne sono accorta nel giugno del 2019, pochi giorni dopo essere entrata in Giunta. All’epoca chiesi un parere ai tecnici, che mi risposero che la statua è sotto la tutela della Soprintendenza e che il Municipio non poteva quindi intervenire».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La Soprintendenza dal canto suo sembra saperne nulla: abbiamo infatti interpellato a riguardo la direttrice Maria Piccarreta, che però non ha mai risposto alle nostre domande.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Quel che è certo è che ora Piccinni appare con una mano semichiusa che non contiene nulla. A dirla tutta pare che il compositore sia nell’atto di esclamare un sonoro “Cə uè?”. Riferito a chi, lo lasciamo all’immaginazione dei baresi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
(Vedi galleria fotografica)
* Con la collaborazione di Laura Villani
* Foto di copertina di Franca Foccis e Valentina Rosati
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
I commenti
- Vito Petino - NICCOLÒ PICCINNI E L'IMPORTANZA DELLA LINGUA NATIA Emotivamente bello e interessante storicamente il servizio datato 11 giugno 2020 del bravo Marco Montrone, degnamente illustrato dalle foto di Valentina Rosati, sul nostro più importante musicista del ‘700 e oltre, quel Vito Niccolò Marcello Antonio Giacomo Piccinni che campeggia dal suo piedistallo su tutto il corso Vittorio Emanuele nel cuore pulsante della sua Bari. Oggi costretto, purtroppo, non più a comporre musica, ma più prosaicamente a dirigere il caotico traffico dell’intasata arteria centrale della città. Probabile che ai suoi tempi in quelle stradine strette della Bari d’allora i suoi vicini di casa fossero molto più disciplinati, pur nell’imperante ignoranza dell’epoca. Ma né sulla penna mancante e nemmeno sul civismo del tempo voglio soffermarmi. Ciò che ha calamitato la mia attenzione è la frase in chiusura alla didascalia della dodicesima foto del servizio di Barinedita “Ce uè?”, che Niccolò avrebbe detto per reazione alla sparizione della penna. Un barese di piazza Mercantile non avrebbe mai scritto una “e” all’epoca inesistente, tirata fuori a metà novecento da un piccolo gruppo di gente “colta” che si definisce “scuola del barese, regole di scrittura dialettale”, volendo mettere le briglie a ciò che naturalmente suona dalle bocche con armoniosità. È come voler mettere legacci all’aria fresca, o imbrigliare le farfalle. Morrebbero. I dialetti sono una conquista del popolino senza banchi di scuola, che da tempo immemore lo scrive, per quel poco che serve, come lo parla. Su Facebook ho fondato il gruppo VERNACOLO BARESE DEL TERZO MILLENNIO proprio per controbattere, non combattere, quella cerchia che ne vuol fare un suo vernacolo in esclusiva, scambiandosi tra loro poesie, raccontini e prosa varia, che rimangono in quell’ambito ristrettissimo di pochi intimi. Nulla da togliere alla loro fatica pur sterile, ma i loro sforzi restano senza il consenso delle masse che, nel 99 per cento degli iscritti baresi a FB, continuano a scriverlo come lo scrivo io. Proprio notando questa peculiarità, mi è nata l’idea di fondare il gruppo, insieme ad altri adepti. Babbo nei miei primi dieci anni, insieme ai miei fratelli venuti dopo, ci aveva proibito in modo assoluto di esprimerci in dialetto, e per evitare contaminazioni proibiva a nostra madre di mandarci per strada se non accompagnati da lei. Anche se poi tante nostre vecchie zie, e zii soprattutto, quasi tutti molto colti, l’ho usavano abitualmente quando venivano a trovarci nel vecchio bivani di via Carulli. Senza contare le occasioni che si presentavano quando nostra madre ci portava al mercato di via Abbrescia-Celentano per la spesa giornaliera. Dunque, sino ai dieci anni, del dialetto barese ne sentivo i suoni che mai la mia bocca pronunciava. Ma il cambio di abitazione fu provvidenziale; nella nuova casa le nostre abitudini giornaliere dopo la mattinata a scuola cambiarono radicalmente. Appena giunti a Japigia nella primavera del ’54, con tanti spazi verdi intorno alle nostre case popolari fresche di edificazione, e con frotte di ragazzini per strada, lasciarci andare liberi con i nuovi amici fu giocoforza per mia madre che, nascondendo a mio padre quel nostro importante bisogno di misurarci con i nostri coetanei per una naturale formazione di sana crescita, divenne nostra complice, chiamandoci dal balcone ogni giorno prima delle cinque del pomeriggio, momento in cui lui tornava dal lavoro in ferrovia. “Vitino, Lilli, salite che fra poco arriva Babbo”, e l’idea delle conseguenze, ci faceva lasciare qualsiasi gioco stessimo facendo per la paura di prenderle. Babbo riversava su di noi tutte le sue aspettative di vita superiore, per lui infrante dalla spietata realtà. Senza più madre dall’età di otto anni, dovette prendere la strada del lavoro nell’officina del padre, sotto gli archi della Bari-Matera. Il mio amore per il dialetto barese, dunque, nasce a età tarda, rispetto al tempo naturale d’apprendimento, quando ogni neonato comincia a percepire quei suoni che l’accompagneranno tutta la vita. Suoni molto più amati quando ci si trova in altri paesi. Infatti chi, trovandosi soprattutto in città del nord, non ha avuto un dolce sobbalzo al cuore, appena sentito il nostro amato vernacolo. A me è successo spesso nei due anni milanesi. In stazione, nelle vie, in piazza, il cuore mi ha dato sempre un balzo nell’udirlo pronunciare da gente sconosciuta che, immediatamente individuata, diveniva uno di “famiglia”. La scenetta ricorrente si ripeteva ogni volta che mi sforzavo a chiedere in milanese sporco un’informazione, ricevendo come risposta dal barese dell’occasione “E parl accom t’ha fatt mammt”. Io ho preso la frase alla lettera, modificandola in “E scriv accom t’ha mbarat mammt a parlà”. Si possono imporre regole alla libertà, dunque? No, perché non sarebbe più libertà ma imposizione, appunto. Certo che il dialetto è importante. Per difenderlo, io nel 1962 a Milano ho preso una coltellata alla nuca da un bauscia polentone a cui dava sui nervi la nostra parlata, prima che lo mandassi all'ospedale. Mai vergognato del mio musicale linguaggio natio. Nei due anni all’ombra del Duomo, ’62-’63, ne ho dirottati di proseliti al nostro barese, insegnandolo a tutti gli amici, senza mai apprendere il loro meneghino. E come ci siamo divertiti ogni sera con gli scioglilingua nella trattoria di via Solferino difronte a casa, e nei dintorni di Porta Garibaldi e porta Venezia, e Galleria, Naviglio, Porta Nuova, sino a declamarli negli spogliatoi quando si giocava a pallone. "C ng n’ama scì, sciamaninn. C no ng n’ama scì, no ng n sim scenn". E le risate che scoppiavano fra noi con la lingua che si impastava prima di sciogliersi. Si possono mettere briglie e morsi a "vastasi" di strada che hanno rinnegato ogni testo scolastico perché incomprensibile per loro? Se per millenni si è parlata la lingua natia con la stessa facilità del primo respiro, perché complicare la vita a chi esprime il proprio linguaggio così come l'ha sentito sin dal primo vagito. E se ora a malapena ha imparato a scriverlo, lasciamoglielo fare liberamente come libero è ogni dialetto del mondo, senza testi né testoni. Se avessero avuto la capacità d'intendere regole e costrizioni, sarebbero diventati tutti dottori. E che ce ne facciamo di migliaia di dottori, appena appena utili solo a curar se stessi. Dimostrazione lampante di quel che asserisco è l'espressione semplice come l'acqua dell'esimio dr Mirabella riportata in prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno del 22 dicembre 2019. Mirabella ha scritto il termine "scandat" (spaventato) proprio come tutti lo udiamo, riportandolo direttamente nero su bianco; commettendo però una lieve imprecisione nel riporto, non so se per disattenzione o perché nel suo idioma bitontino il suono è quello scritto. Teniamo anche in debito conto la sua lunga assuefazione alla lingua colta, ma il risultato è che quel che lui intendeva è arrivato comprensibile alle menti del colto e dell'incolto. Avrebbe dovuto solo, per un barese perfetto, staccare le prime due lettere sc (come sci), aggiungendo una seconda c, per avere le autentiche note scritte del termine, cioè "sc-candat". Oppure vogliamo dare dell'asino anche a Mirabella. Allora siamo tutti asini, ben felici di esserlo, scrivendo le note del nostro barese proprio così come le cantiamo, liberamente; con la testa sgombra da tante cianfrusaglie, che pochi accademici barbosi vogliono metterci dentro a forza. La differenza con loro sta tutta nel concetto di anarchia vernacolare che io sostengo, mentre gli accademici vogliono imporre severe regole ai duri di comprendonio. Ma il suono è suono e a ogni tono di voce corrisponde una nota. Non esistono note che si mettono nello spartito e non si suonano. In musica le pause, i silenzi si esprimono con spazi bianchi, senza nessun escremento di mosca, come capitò a quel musicista che suonava fuori dal coro. Rappresentiamo due distinte correnti di cultura dialettale. Una con regole ferree ma confusionarie, e la mia invece che sostiene lo scrivere semplice della maggior parte dei baresi non accademici. E non mi riferisco alla maggioranza di frequentatori dei social, ma alle migliaia di cafoni baresi, tutti afferrati nel parlare la lingua natia, prima che negli anni ‘50 qualcuno cominciò a mettere regole che nessuno capiva. A quei tempi mia zia Caterina, terza elementare, scriveva al figlio militare un misto di italobarese. “Car Nicol, ti ho mandato l sold p ‘stù mes. Non saccio c t li pozzo mandarli u mese ca trase”, eccetera. Non vi è stata mai una volta, in tanti anni di scambi epistolari, che mio cugino non si sia compreso con la madre e viceversa. E tornando al gruppo virtuale del vernacolo barese, questa la sola regola che chi vuole può rispettare, noi lo comprenderemo lo stesso, senza rimproveri e tiratine d’orecchie come fanno i “docenti” non richiesti; lo hanno compreso dalla notte dei tempi i nostri avi, baresacci senza cultura, possono comprenderlo anche le ultime generazioni, che almeno la scuola dell’obbligo l’han fatta: SCRIVETE IL SUONO DELLA PAROLA COME LO SENTITE, proprio come i musicisti scrivono ogni nota della loro musica. Nemmeno in italiano i suoni si trasformano. Si scrivono così come si sentono “din don; tock tock, crasc, bang bang. Provate a mettere le “e” inutili alla fine di ogni suono, e vedete se qualcuno distingue più il richiamo di una campana, il bussare di una porta, lo spezzarsi d’un legnetto, lo sparo di una pistola che vuole ammazzare il nostro bel dialetto musicale. Forse è propria quella “e”, che sa tanto di paesi del circondario, ad aver distorto il nome della nostra bella città da “Bbar” a “Bere”. Pur vero che, per impedimenti paterni, vi sono arrivato un po' tardi per parlarlo perfettamente. Ma dopo 66 anni mi son rifatto a sufficienza, scrivendo tante storie e raccontini in vernacolo. Da alcuni si potrebbero trarre delle pieces teatrali sulla scorta del teatro eduardiano. Solo così è possibile portare il nostro dialetto a quegli alti livelli emotivi. Affidiamoci, quindi, all'inventiva che il buon Dio ci ha donato da millenni, nei quali ci siamo sempre compresi pur senza regole. E la sparizione della penna dalle mani di Niccolò, secondo me, è dovuta alla sua pazienza ormai esaurita nel vedere il suo amato dialetto storpiato sulla carta dai “sapientoni” baresi del nostro tempo. Anzi più che di sparizione, penso l’abbia gettata via, vista l’insipienza di scrivere il barese parlato, corrotto da quelle inutili “e” mute, che si “devono” scrivere senza dirle, creando un guazzabuglio di termini incomprensibili per i poveri venditori ambulanti, costretti a dannarsi l’anima per scrivere un ordine. “Care Pasquale viccere, domane purteme une decine de cape de salzzizze de maiale, tre cape de capuzze d’agnedde, e due testicole de cavadde”, invece del più armonioso, diretto e semplice “Car Pasqual u vccir, doman purtm ‘na dcin d cap d salzizz d maial, tre cap d capuzz d’agnidd, e du’ chgghiun d cavadd”. E allora, diretti dall’esimio maestro Vito Niccolò Marcello Antonio Giacomo Piccinni, noi baresi veraci gridiamo tutti in coro “C ué?” …
- Salvo - Ho avuto anch'io una vita ...dialettale come quella del signor Petino e tuttavia non condivido la sua teoria di scrivere come si parla. Può andar bene se se scrivi per chi il dialetto lo parla avendo comunque una certa cultura. Altrimenti la lettura vocale diventa un problema del tutto irrisolvibile. Se a un milanese, per rimanere alla storia del Petino, spieghi come si leggono, sonoramente, le e finali , si fa già un notevole passo avanti. Naturalmente poi vi sono le e vere e quelle tronche (sarebbe meglio scrivere quelle tronche "rovesciate" ), vi sono gli accenti da inserire opportunamente e altre cosette del genere. Come per le lingue straniere: per leggerle in qualche modo, bisogna seguire un minimo di regole ....sonore.