di Francesco Sblendorio - foto Rafael La Perna

Divisi in Africa, insieme a Bari: alla scoperta di Adulis, l'associazione che unisce etiopi ed eritrei
BARI – «Noi siamo la stessa cosa». A parlare è il 41enne Asmenafi, presidente di “Adulis”, un’associazione che riunisce gli etiopi e gli eritrei “baresi”: due popoli vicini ma divisi, che in Italia sono però tornati ad abbracciarsi e a fraternizzare. (Vedi foto galleria)

I due Paesi infatti, dopo secoli di storia comune (entrambi furono tra l’altro colonie italiane nel Corno d’Africa), nel 1998 sono entrati in conflitto per questioni di definizione dei confini e per il possesso della città di Badme. La guerra è finita nel 2000, ma solo nel 2018 il governo etiope ha ritirato l’esercito da Badme, ponendo così le basi per un trattato di pace. Il rapporto tra i due Stati rimane però contradditorio, considerando anche che l’Eritrea è attualmente sotto un regime dittatoriale che obbliga tutti i cittadini a un servizio militare permanente.

I due popoli però continuano a condividere tradizioni, lingua e religione: sono di fatto “fratelli” e per questo motivo, lontano dai loro Paesi, fanno in modo di cercarsi e a trovarsi, condividendo i momenti liberi e scambiandosi esperienze.

A Bari lo fanno sia riunendosi negli spazi dell’associazione, sia ritrovandosi ogni domenica mattina nella chiesa di San Gaetano, a Bari Vecchia, lì dove si celebra il rito copto-ortodosso.  Di questo colorato e gioioso appuntamento ne abbiamo parlato in un precedente articolo, oggi invece siamo andati a trovare etiopi ed eritrei all’interno di “Adulis”, che ha sede in via Celentano 47, nel rione Madonnella.

Ci ritroviamo così davanti a una porta a vetri colorata da locandine variopinte su cui si legge il nome Adulis: si rifà a un antichissimo porto sul Mar Rosso attestato già nel 2500 a.C. e oggi in territorio eritreo.

L’interno è piuttosto buio, ma sulla sinistra si notano un bancone da bar alle cui spalle si staglia un’ampia scelta di liquori e amari, un espositore di snack e un frigorifero per la conservazione delle bevande fresche. Di fronte ci sono dei tavolini e qualche sedia addossata al muro.

Ci accoglie il presidente Asmenafi, eritreo. «L’associazione nasce nel 2010 come centro culturale - esordisce -. Abbiamo cambiato sede un paio di volte, ma siamo rimasti sempre in questa zona perché la maggior parte di coloro che provengono dall’Africa orientale vive a Madonnella». 

A Bari, stando ai dati del 2023, la comunità eritrea conta 128 persone e quella etiope 163. Seppur in diminuzione (nel 2018 erano rispettivamente 280 e 234) mette insieme ancora circa 300 persone.

«Eritrei ed etiopi sono la stessa cosa», ci spiega in parole semplici Asmenafi. Anche se ben diversi sono i motivi che li hanno spinti a raggiungere l’Italia. La maggior parte degli eritrei “baresi” è fatta infatti da rifugiati politici, mentre gli etiopi sono in genere migranti economici. I primi quindi possono comunicare con i parenti solo per telefono e nessuno di loro può ovviamente rientrare in Patria. I secondi hanno più possibilità di farsi mandare prodotti tipici della loro terra o di tornare a casa ogni tanto.


Incontriamo Mesfia e Meera, due eritrei di 40 e 34 anni: sono approdati in Italia tra il 2008 e il 2010 dopo un viaggio lungo più di un anno attraverso Etiopia, Sudan e Libia e la traversata del Mediterraneo sui barconi.

Mesfia ha messo radici in Puglia: dopo sei mesi trascorsi in un centro per richiedenti asilo nel Foggiano, ottenuti i necessari documenti si è trasferito a Bari dove oggi lavora in un’impresa di pulizie, Meera invece è stato molto più “girovago”. Ottenuto il permesso di soggiorno dopo un periodo al Cara di Palese, ha vissuto in Inghilterra e, tornato in Italia, si è spostato tra Milano, Roma e Bari. È un falegname, ma al momento in cerca di lavoro. «Quando troverò un contratto stabile cercherò di far venire qui anche mia moglie – spiega -, che ora è ancora in Eritrea».

Diversa è la storia degli etiopi, in genere giunti in Italia in cerca di migliori condizioni economiche o per ricongiungersi ai famigliari già immigrati. È il caso di Alemseged, 34enne originario di Addis Abeba. «Sono a Bari da 6 anni - racconta -. Mia moglie, che fa la badante, era arrivata prima e io l’ho raggiunta. Lavoro in una ditta di pulizie e tre anni fa è nata la nostra bambina. Non intendo tornare in Africa - afferma convinto -: mia figlia è nata in Italia ed è giusto che cresca come una donna europea». Del resto a Bari si trova bene. «Mi piace frequentare i baresi – afferma -: volentieri dopo il lavoro vado a bere qualcosa con i miei colleghi italiani».

In genere, ci spiega Asmenafi, eritrei ed etiopi sono ben integrati nella realtà barese. Oltre che come addetti alle pulizie o artigiani, lavorano per lo più come lavapiatti o braccianti agricoli. Hanno amici del posto, fanno la spesa nei supermercati preferendoli ai negozi etnici e apprezzano la cucina locale, in primis la pasta. Ma non rinunciano ai piatti tipici della loro terra. Il presidente dell’associazione Adulis ci parla per esempio dello zighinì, una pietanza eritrea a base di carne, peperoni, cipolle e pepe immersi nel sugo.

E a proposito di cibo nella sede dell’associazione notiamo in particolare due oggetti. Il primo è il mesobi, una sorta di grosso cesto in vimini rialzato da una struttura a cono, capace di contenere un grande piatto dal quale può mangiare un’intera famiglia. Il secondo è invece una particolare caffettiera: è una specie di bollitore, poggiato sui carboni, in cui si fa riscaldare polvere di caffè immersa in acqua. 

Pranzare insieme d’altronde è una delle attività che vedono più volentieri riuniti i membri della comunità. Ad esempio la domenica, alla fine della celebrazione a San Gaetano, i fedeli festeggiano fuori dalla chiesa con focaccia bianca e un infuso dall'intenso odore floreale.

Sapori e profumi dell’Africa, una terra lasciata spesso per disperazione, ma nella quale etiopi ed eritrei vogliono comunque sempre riconoscersi. Insieme.

(Vedi galleria fotografica)


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