Molfetta, Maria ce l'ha fatta: «Ho ritrovato la mia mamma biologica grazie al test del Dna»
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venerdì 27 novembre 2020
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di Gaia Agnelli
Quattro anni fa questa signora di Molfetta ci aveva parlato della sua storia: era alla ricerca della donna che l’aveva messa al mondo e poi abbandonata. Ma fino ad allora tutti gli sforzi erano stati vani: tra burocrazia e norme ostative quali la cosiddetta “legge dei cent’anni”, non si era nemmeno avvicinata alla verità. Poi però la svolta: grazie a un test del Dna ha trovato una traccia che l’ha condotta nel giro di pochi mesi in Basilicata, lì dove vive la madre. E il 7 settembre del 2019, il giorno del suo compleanno, ha conosciuto il genitore, ricostruendo finalmente il proprio passato.
Abbiamo quindi contattato di nuovo Maria per farci raccontare il suo “viaggio” a ritroso nel tempo: una testimonianza, questa, che potrà essere utile ai tanti che sono alla ricerca delle proprie origini.
«Sono nata nel 1965 in una clinica privata del quartiere San Pasquale di Bari, in via De Napoli – esordisce Maria – ma venni abbandonata appena dopo il parto. Così fui portata al brefotrofio di Via Amendola 186/b, lì dove mi diedero un nome e un cognome fittizio: “Maria Celestini”».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il brefotrofio era quell’istituto che accoglieva i neonati baresi senza genitori. Lì Maria rimase per i suoi primi sette mesi di vita, sino a quando nell’aprile del 1966 fu adottata dai coniugi Patruno che la accolsero nella loro casa di Molfetta, salvandola dalla solitudine e dell’anonimato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«A loro devo tutto – afferma la 55enne -. Ho perso mio padre quando avevo 18 anni, crescendo così con mia madre fino a quando anche lei, undici anni fa, mi ha lasciato. È in quel momento che è partita la mia ricerca».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Sì perché la voglia di Maria di andare “indietro nel tempo” derivava da due esigenze: quella di capire il perché la mamma biologica avesse preso la decisione di abbandonarla, ma anche quella di mantenere una promessa fatta alla mamma adottiva. Quest’ultima infatti, prima di morire, aveva espresso un desiderio: incontrare la donna che aveva partorito sua figlia per dirle semplicemente “grazie”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
E così la Patruno cominciò il suo viaggio a ritroso, scontrandosi però con tanti problemi. Prima fra tutti la cosiddetta “legge dei cent’anni”, che garantisce l’anonimato ai genitori che hanno abbandonato e non riconosciuto i propri figli. Si chiama così perché i documenti di nascita possono essere “desecretati” solo al compimento del secolo di vita da parte del richiedente: un qualcosa che quindi non avviene praticamente mai.
La norma nel frattempo è stata comunque riconosciuta illegittima da parte della Corte Costituzionale, che con sentenza n.278/2013 ha abbassato l’età dell’accesso alla documentazione ai 25 anni, previo però consenso della madre biologica fornito al Tribunale dei Minorenni.
Una decisione giurisprudenziale di cui però Maria non hai mai potuto approfittare, visto che la documentazione inerente alla sua nascita risultò da subito dispersa. Persino all’Archivio di Stato non c’era nessuna carta che potesse collegare la donna a sua madre.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ma lei non si perse d’animo, cominciando a diffondere il suo appello “Vorrei tanto ritrovarti” (nell'immagine) in tv, su Youtube e sui social network, sino a imbattersi su Facebook nel gruppo “La punizione dei 100 anni”: una comunità virtuale composta da persone alla ricerca delle proprie origini. Ed è in quel momento che la storia prese una svolta. «Tramite il gruppo venni a conoscenza dei kit per fare il test del Dna: e questo cambiò tutto», sottolinea la Patruno.
Il test, del costo di poche decine di euro, consiste in un semplice tampone fatto all’interno della bocca che si spedisce in un laboratorio degli Stati Uniti per poi venire inserito in una banca dati mondiale.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Qui le informazioni di coloro che si sono sottoposti all’esame vengono incrociate, così da scovare un eventuale collegamento tra di loro. «Il mio Dna venne confrontato con quello di milioni di persone – racconta Maria -. Onestamente non pensavo che potesse servire a qualcosa, ma un giorno mi arrivò una chiamata dal laboratorio: avevano trovato una traccia».
Parte dei segmenti del suo Dna corrispondevano infatti a quelli di un ragazzo della Basilicata. «Era un mio parente di quarto grado – afferma -. Così lo contattai e lui si mise a disposizione per aiutarmi nella mia ricerca. Come? Chiedendo ai membri della famiglia di sottoporsi al test».
E così la donna riuscì ad andare indietro nel tempo, trovando pian piano dei legami genetici e risalendo così dal quarto al terzo sino al secondo grado di parentela, ovvero due coniugi di Matera che nel frattempo erano però deceduti. Ma tanto il più era fatto. Tramite contatti e amicizie comuni, “quel nome” che tanto aveva cercato spuntò finalmente fuori, presentandosi in carne e ossa dinanzi ai suoi occhi. Aveva trovato la sua genitrice.
L’incontro tanto atteso avvenne il 7 settembre del 2019, giorno del compleanno di Maria. «A distanza di tanti anni mia madre ricordava benissimo quell’anniversario – ci dice -, così scegliemmo di vederci proprio in quell’occasione, in ricordo dell’unico giorno in cui eravamo state vicine».
Maria non vuole svelarci né il nome della signora tanto desiderata, né le motivazioni che spinsero quest’ultima ad abbandonarla. Ci dice solo che «lei era una bambina quando mi mise alla luce e la scelta di lasciarmi andare non fu sua ma frutto della decisione di qualcun altro». Poi aggiunge: «Sono stata contenta di rivederla, ho capito tante cose del mio passato, ma soprattutto sono riuscita a mantenere “la” promessa fatta alla mia vera mamma, colei che mi ha cresciuto e fatta diventare ciò che sono».
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