Mola, la storia di Francesco e del suo antico cantiere navale: «Sono rimasto solo io a riparare barche»
Letto: 7367 volte
mercoledì 29 giugno 2022
Letto: 7367 volte
di Gaia Agnelli - foto Antonio Caradonna
Il settore navale pugliese, come abbiamo raccontato più di una volta, è infatti in forte crisi. Di fatto a Bari e provincia è rimasto solo il “Viromare Uva” di Monopoli a realizzare barche (ha infatti detto addio anche il “Cappelluti-De Candia” di Molfetta) e in tutto il capoluogo c’è solo un’officina che continua a realizzare componenti nautiche.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La colpa è del forte indebolimento subito dal settore della pesca avvenuto a partire dagli anni 90, quando discutibili politiche economiche della Comunità Europea hanno disincentivato l’attività dei pescatori italiani per favorire i colleghi greci e spagnoli. Questo ha portato a una sensibile riduzione della domanda di pescherecci e alla conseguente chiusura di numerosi cantieri. Ma non solo. A influire c’è stata anche la trasformazione del materiale con cui si costruisce: se prima si faceva tutto con il legno, piano piano quest’ultimo è stato sostituito da ferro e vetroresina. Risultato: le barche oggi sono più resistenti e necessitano di minori riparazioni e la figura del maestro d’ascia, abituato a lavorare con mogano e frassino, è andato velocemente in pensione.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per questi motivi abbiamo deciso di raccontare la storia del cantiere di Mola e del suo titolare 64enne Francesco Cinquepalmi, perché è quella di un antico mondo che sta di fatto scomparendo. (Vedi foto galleria)
Il cantiere si trova all’interno del porto di Mola e il suo ingresso si staglia su via Lungara Porto, il “vecchio lungomare” del borgo marinaro. Superato un cancello bianco ci ritroviamo su uno spiazzo affacciato sul mare nel quale balza subito all’occhio un’imponente gru blu utilizzata per l’alaggio e il varo, ovvero le operazioni che consentono di tirar fuori o mettere in acqua le barche.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Uno di questi natanti si erge proprio al centro dell’area di lavoro, “parcheggiato” su alcune travi in ferro in attesa di essere aggiustato. Si tratta del “Giosuè”, un peschereccio bianco e marrone sotto il quale si nasconde Francesco. Incontriamo infatti il signore vicino allo scafo, mentre è alle prese con un’asse in legno che sta modellando con la levigatrice.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Sto eseguendo un’opera di calafataggio – ci dice accogliendoci tra il rumore assordante dei suoi strumenti –. La fascia di questa imbarcazione si è usurata con il tempo ed entrava acqua dalle fessure durante la navigazione. Adesso è questo quello che faccio: riparo barche, mentre prima le costruivo. Ero infatti un vero e proprio mastro d’ascia».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Tra un colpo di martello e l’altro, l’artigiano ci racconta la storia di questo antico cantiere. «Le sue origini risalgono all’Ottocento con la famiglia Gaudiuso, alla quale appartengo dal lato materno – spiega –. All’epoca i miei avi realizzavano barche a remi, gozzi e trabaccoli (navi da carico a uno o due alberi), tutto rigorosamente in legno. A inizio Novecento la gestione passò al mio bisnonno Domenico, che si formò come mastro d’ascia nell'arsenale più rinomato dell’epoca, quello di Castellammare di Stabia, dove fu costruito il veliero Amerigo Vespucci. A ereditare l’attività furono poi i suoi figli Francesco e Vincenzo (mio nonno paterno) con un cugino, ai quali si affiancò nel 1971 mio padre Giovanni, nel frattempo divenuto marito di Ninetta, figlia di Vincenzo».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Fu osservando il papà e spinto dal suo amore per il mare che il piccolo Francesco iniziò già dalla tenera età a operare su grosse imbarcazioni imparando a costruirle e ripararle. «Ricordo ancora la filastrocca che recitavano gli operai mentre segavano i tronchi: “se pensi che io ti taglio, non ti taglio, non ti taglio”, e poi ricaricavano le energie mangiando un panino con le fave che cucinavano accendendo i truccioli del legno», ricorda l’uomo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Si trattava di un lavoro duro che richiedeva settimane di dedizione. «Senza gli attrezzi di oggi per realizzare una barca di piccole dimensioni ci si impiegava anche tre mesi – afferma Cinquepalmi –. E all’epoca non c’erano le gru per tirare a secco le barche: lo si faceva a “mano” utilizzando macchine composte da un tamburo sul quale girava il cavo di tiro. Poi si faceva scorrere l’imbarcazione su due grosse travi. Per farla scivolare meglio ricordo che si comprava dalla macelleria il grasso avanzato dalle bistecche: sciogliendosi rendeva l’operazione più facile».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Con il passare degli anni Francesco si specializzò divenendo mastro d’ascia (ci indica con orgoglio il titolo appeso a una parete del suo ufficio) sino a rilevare nel 1991 l’attività, a cui diede il suo nome. E tra tanti aneddoti l’uomo ci mostra le foto delle ultime due imbarcazioni di legno da 25 metri da lui realizzate nel 1997: una porta il nome del padre Giovanni, mentre l’altra si chiama Ninetta come la madre.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Questo luogo ha sfornato centinaia di barche – afferma –. Del resto un tempo Mola era mare: nel porto si creava una coda assurda di pescherecci e ora mi piange il cuore vedere che non c’è nemmeno un quinto di quello che era presente prima. Il settore della pesca è fortemente in crisi e l’attività cantieristica, di conseguenza, è morta. Tra l’altro sarebbe anche impossibile pensare a una sua ripresa vista la carenza di manodopera: non si trovano più persone interessate a praticare questo mestiere duro e difficile».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Cinquepalmi è rimasto infatti l’unico a Mola a occuparsi di calafataggio. «E probabilmente sarò l’ultimo – afferma –, perché ho deciso di vendere la proprietà. Ai miei figli ho detto di prendere strade diverse, meno faticose e più redditizie e quindi non ci sarà nessuno a proseguire la mia amata professione».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per è arrivato ora il momento di ritornare al lavoro: afferrata l’asta che aveva levigato in precedenza Francesco riprende quindi a operare sul “Giosuè”. Ma prima di salutarci ci mostra un’evidente cicatrice posta all’altezza della tibia. «È una ferita che mi sono procurato con un’ascia sfuggitami di mano – ci confessa -. Ma ne vado fiero: un bravo artigiano lo si riconosce dai segni lasciati sulla propria pelle».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
(Vedi galleria fotografica)
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita