Prima distrutta poi vandalizzata e criticata: è la bistrattata "statua del Pescatore" di Torre a Mare
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giovedì 14 aprile 2022
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di Mina Barcone - foto Nicola Velluso
Il quartiere più a sud del capoluogo pugliese infatti, seppur diventato “alla moda” e turistico negli ultimi tempi, non ha mai dimenticato le sue origini di borgo marinaro, che deve la propria fondazione al leggendario Varvamingo, primo pescatore a vivere a Torre Pelosa.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
E proprio per valorizzare la profonda connessione fra i suoi abitanti e l’Adriatico, nel 1925 un’influente famiglia di Torre a Mare fece omaggio ai cittadini della “Fendàne du Pescatòre”, scultura in bronzo dell’artista giovinazzese Tommaso Piscitelli. L’opera venne installata sull’allora viale Principi di Piemonte, oggi piazzetta Mar del Plata, al centro di una piccola aiuola a due passi dal pittoresco porticciolo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il monumento rappresentava eroicamente un giovane muscoloso dai capelli ricci e senza vestiti, con un ginocchio appoggiato su una roccia e una lunga fiocina tra le mani, impegnato a sottomettere una grande piovra avvinghiata alla scogliera.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Tuttavia il suo “vigore” non incontrò il gusto dei cittadini. «Quell’uomo nudo fu considerato “osceno” per i canoni dell’epoca – ci riferisce l’80enne Nicola, residente di Torre a Mare -. Pare che il parroco fece adddirittura eliminare dalla statua i genitali, così che le ragazze innocenti non venissero attratte da quella visione “lussuriosa”».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Racconto che tuttavia è difficile da verificare non avendo a disposizione l’originale. Infatti, sul finire degli anni Trenta e con lo scoppio del Secondo conflitto mondiale, molti manufatti in bronzo e in ferro presenti sul territorio italiano furono sequestrati e disfatti con lo scopo di riutilizzarne i materiali. Questo avvenne per i lampioni del lungomare di Bari ad esempio e anche per la povera Fontana del Pescatore.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Si dice che la scultura fu fusa per assemblare armi – spiega l’esperto di storia locale Agostino Montedoro –. In seguito ad alcune mie ricerche però è sorta l’ipotesi che il monumento in realtà sia stato solo trasportato in un altro luogo dal suo stesso autore, che cercò così di nasconderlo per salvarlo dalla liquefazione».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
In effetti esistono due “gemelle” della fontana, forgiate dallo stesso Tommaso Piscitelli: la prima si trova a Santa Flavia, in provincia di Palermo, mentre la seconda è ubicata a Manfredonia, in piazza Marconi. «Le altre statue potrebbero essere state realizzate successivamente a partire dallo stesso calco – riprende Montedoro - e questo ne spiegherebbe l’estrema somiglianza. Tuttavia, la tesi per cui quella barese sarebbe stata trasferita a Manfredonia o in Sicilia resta plausibile».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Distrutta o semplicemente spostata, al suo posto rimase solo un zampillo d’acqua alto quasi due metri. Questo sino al 2002, quando l’amministrazione comunale decise di commissionare al maestro Mario Piergiovanni una copia della scultura, che nel giro di un anno andò così a colmare il vuoto esistente.
Ugualmente creata con bronzo fuso (e diventata di color verdognolo a causa di una reazione con la salsedine), la nuova opera presenta però dei capelli leggermente più lunghi rispetto all’originale, oltre al fatto di non rispecchiare i canoni classici dell’uomo aitante che invece venivano perfettamente rispettati nella precedente. Qui infatti il paladino non ha spalle possenti e glutei ben definiti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«E non solo – incalza la storico –. Se si osserva attentamente il volto dell’eroe è difficile non notare la somiglianza con quello di Simeone Di Cagno Abbrescia. Non sappiamo se fu l’ex sindaco a richiedere questo “ritratto” o se si trattò solo di un modo, per lo scultore, di omaggiare chi gli aveva commissionato il lavoro. Resta comunque un particolare singolare, che ha fatto storcere il naso a parecchi cittadini».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La fontana infatti, dopo essere stata anche privata della fiocina da alcuni vandali nel 2006 (poi sostituita), non è stata risparmiata da critiche, vista pure l’esorbitante somma spesa per la sua creazione: all’incirca 150 milioni di vecchie lire.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
L’ennesimo schiaffo quindi a un’opera che, tra vecchia oscenità e nuova “bruttezza”, continua a dividere un borgo marinaro che non riesce proprio a identificarsi in questo bistrattato “Nettuno”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
(Vedi galleria fotografica)
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I commenti
- Vito Petino - RIMEMBRANZE TORRAMMARINE (da Prendere la vita a calci) Il mio primo incontro con Torre a Mare risale alla serata di San Ferdinando del maggio del 1950. Abitavamo in via Carulli in casa di zia Mamma, sorella di mia nonna materna, che non ho mai conosciuto, morta quando Babbo aveva otto anni e mezzo. Quella sera alle 20 mia zia, vedova bianca, chiese a Mamma. - Rosè, m portch a Vitin ch mme. U combar Onofrij m'ha nvtat a scì a mangià p fstggià la maghna nov ca s'accattat. Cudd fasc semb u scem c stoggh sol. E mia madre. - Ma no sta' l'autist che guid la maghn? - Sì, ma cudd iè chiù sscem du patrun su. Fasc semb find d nudd. - Vabbé, z Marì. M raccomand o pccninn. U sa ca ten semb u ppep n’guedd quann va a qualche vanna nov. - Fgurd, Rosè. Mangh c no nu canosc’ch. Non d si proccupann. Mamma non mi lasciava andare con entusiasmo, ma quel periodo era per lei un modo per allentare la tensione con mio fratello più piccolo e mia sorella di pochi mesi da badare. - Comunguw, addmann a Frangh. U sa che s’arrabbij c l pccninn iessn la ser. - So già parlat, ng so ditt che ama scì da Frdnand a fang l’augurij. Tu mo’ no ng si dcenn la vrtà. U sa che d’Onofrij non vol mangh sndì parlà. Vero che zia Mamma aveva chiesto a Babbo il permesso di portarmi con lei alla festa di onomastico del cognato, a cui mio padre doveva il posto in ferrovia ma, dicendo una bugia, gli aveva nascosto che gli auguri a zio Ferdinando eravamo andati insieme a farglieli quella mattina. E io mi feci complice pur di andare a passeggio in macchina, per me una novità. Scendemmo da casa, e dietro l'angolo di via Abbrescia salimmo in una macchina nera e lucidissima, parcheggiata sotto il marciapiede destro, le ruote nere con fascia bianca, e all’interno il solito odore di cuoio nuovo. - Bonaser Onofrij. Bonaser Ciccill. Dì buonasera, Vitino. E io a denti stretti per la rabbia, salutai nello stesso tempo al saluto univoco di compare Onofrio e Ciccillo, in risposta. - B-n-s-ra. Compare Onofrio mi era stato sempre antipatico, soprattutto per quel "compare", certamente influenzato anche dal cattivo giudizio che Babbo ne aveva. Come ci era compare non l'ho mai saputo, fino a quando andammo ad abitare a Japigia dove, a frequentare maggiormente la strada, i nuovi compagni ce lo fecero capire. Lui cercava sempre di comprarmi con cioccolatini o peggio, con 10 lire. Solo dal mese dopo riuscii a sopportarlo per una settimana soltanto, divenuto meno antipatico per avermi offerto di lavorare a 20 lire a mattinata nella sua fabbrica di mattoni, giù nei locali accanto alla chiesa di Sant'Antonio. A me sin da piccolo, a imitazione di Babbo, è sempre piaciuto lavorare. Così in quella seconda metà di giugno, che l’asilo era già chiuso, accettai. Ma a inizio della seconda settimana si presentò in fabbrica un giovane che dava comandi a tutti gli operai. Mi spiegarono che era il figlio più grande. Ne rimasi turbato. Non sapevo che compare Onofrio fosse sposato. Tornato a casa, non volli più andare a lavorare. Spiegai a mia madre il motivo, mi fece capire di saperlo, anzi tutti in famiglia sapevano, ma si limitavano solo a bisbigli e risolini a stretto giro di bocca e orecchio. Ma il termine compare continuava a essermi estraneo. Per me i compari e le commare erano padrini e madrine di battesimi e altri sacramenti. - U pccninn mittuw o sdil d nnanz, ca sta chiù commd. - Ci iè, Onò, si matt. Iè pccnunn e pot cadè. - Sind a mme, ca stam chiù commd pur nù. - Onò, o u pccninn sta mmenz a nù, oppur m n voggh. Di tutto quel parlottare non capii niente. - Ciccill, sciam! Ciccillo era un operaio di fabbrica che Onofrio, non avendo la patente, utilizzava da autista alla bisogna pagandogli, oltre l’extra, anche pranzo o cena. Mise in moto, ingranò la marcia e con la mano sinistra armeggiò in alto al montante metallico del parabrezza, da cui fece sporgere all’esterno quella che doveva essere la freccia a sinistra. - Onò, addò ma sci? - Marì, so prenotat a na trattorì d Torrammar. Mann ditt ca s mang bbun. E Ciccillo avviò la macchina lungo via Abbrescia, passando davanti alla Latteria Principe e, prima del Santalucia, girò a destra per imboccare il lungomare verso la via Vecchia di Mola. - Ciccì, ve chian, che ng godim la passeggiat. - C bella magghn, Onò. Accom s chiam? - Balill, Marì. - Iiiihhh, come la scuola dove devo andare io a ottobre! Dissi con quella spontaneità istintiva, che solo i ragazzini senza furbizia hanno. Nonostante la marcia ridotta l’occhio, abituato al passo delle camminate, aveva qualche difficoltà a immagazzinare le immagini, a sinistra e a destra della strada, che scorrevano veloci dalla parte libera del parabrezza aprendosi verso i due finestrini laterali, per poi perdersi dietro. Riuscii appena a sbirciare l’insegna del Grande Albergo delle Nazioni che scompariva dietro, ma solo perché avevo imparato a leggerla passando a piedi di là. Sapevo già leggere insegne e targhe delle strade grazie a Mamma che, quando si andava in centro da alcuni parenti, mi insegnava a riconoscere le lettere di insegne luminose e nomi delle vie sulle targhe fissate in alto ai muri di ogni edificio d’angolo. Percorremmo tutto il lungomare Nazario Sauro che finiva proprio all’altezza dell’Istituto Marconi. L’ultimo degli edifici completati già da anni era la Caserma Bergia. Il Palazzo dell’Agricoltura lo stavano ultimando, mentre nel giardino davanti al Marconi erano in via di sistemazione le aiuole. Dunque, costretti a svoltare a destra prendemmo via Rovereto, strada a un solo isolato, quello della facciata laterale del Marconi. Di fronte all’istituto c’erano appezzamenti di suolo pronti a essere urbanizzati. Via Rovereto terminava davanti al passaggio a livello, oltre il quale era in costruzione un intero nuovo quartiere di case popolari, la cui strada principale, viale Japigia, costeggiava la ferrovia a monte sino al canalone, per poi cambiare nome in via Gentile. La strada intitolata al filosofo era nominata anche via Nuova di Mola. Noi invece girammo a sinistra, prima del passaggio a livello, percorrendo viale Imperatore Traiano, strada fra mare e ferrovia, passando davanti all’insegna spenta del Lido Marzulli. Chissà perché entrambe le strade che accompagnavano la ferrovia furono chiamate viali, quando a mala pena riescono a passare, senza auto in sosta, due pullman affiancati. Lungimiranza fallace di urbanisti che in quel mare di verde immaginarono grandi viali alberati? Superammo il canalone, dove iniziava la via Vecchia di Mola con a sinistra, affacciato sul mare, il ristorante Transatlantico, a quell’ora illuminato. Ci lasciammo dietro l’oscura sagoma del Trullo, e seguendo sempre al buio tutta la costa, oltrepassammo il Camping, che non aveva indicazione alcuna. Fu in quel punto che Ciccillo, interrompendo l’incomprensibile zigoleccìo di zia Mamma e compare Onofrio, disse indicando a destra il passaggio a livello sulla via di Triggiano. - Don’Onò, o rtorn pgghiam do passagg a lvell, e subt a ddest la via Nov d Mol, tram dritt passann nnanz alla Fiat, e da sott o pond d Sand’Andogn arrvam subbt a via Carull. A chedd’or e ch qualche bcchir d mmir n’guerp iè megghi chedda strat, cchiù commd e tutta drett. - Vabbù, Ciccill. Mo’ alla prim a snist ascinn p San Giorg, arriv mbacc o scial d Bllezz, aggir a ddest e fatt tutt la vi’ dlla Marin. E alla spianat dlla grott trasim a Torrammar. All’incrocio di strada San Giorgio terminava la via Vecchia di Mola. Percorsa tutta la sinuosa via della Marina, e giunti in via Bari a Torre a Mare, scendemmo nella piazzetta Vittorio Veneto. Parcheggiata l’auto davanti alla ringhiera del Belvedere, ci sgranchimmo le gambe ad ammirare il panorama e, sotto di noi, il ristorante Zia Teresa. Voltammo le spalle al Belvedere ed entrammo nella trattoria ad angolo della piazzetta, il cui nome s’è perso nel buio della memoria. Scesi un paio di gradini ci sedemmo a un tavolo a quattro. E amante com’ero dei frutti di mare, a cui Babbo ci aveva abituati gradualmente, quella sera esagerai, facendomene un’abbuffata, che rimase piatto unico, fortunatamente. Un solo bocconcino in più e sarei esploso. Meno male che compare Onofrio mi fece bere una mezza bottiglia di birra, osteggiato da zia Mamma che non voleva. - Ma m uè fa arragà cu uattan, ca ciù pccninn ste mal, pot vnì a sapè la vrtà. Cudd po’ iè capasc che t ven a pigghià da ngann e t stenne sott all mattun. U sa ca ten… - Sì, sì, u sacc …ten u snist proibbit, prcè da giovan ha fatt u bocchserr… Mu si ditt mill vold, Marì. Alla mezzanotte tornammo per la strada indicata in precedenza da Ciccillo, impiegando metà tempo. E per quattro, cinque anni a Torrammare non ci sono più stato. Nel 54 ci trasferimmo a Japigia, troppo piccoli per andarcene da soli a Torre a Mare. Escludendo camminate lungo la via Gentile, per spiluccare gelsi rossi e bianchi dai grandi alberi lungo la strada, oltre il passaggio a livello di San Giorgio non si andava. Nel 58 a scuole chiuse, imparammo a prendere ogni tanto i pullman blu della Marozzi o Sita per Brindisi e Lecce, scendendo davanti al casello Anas. Istradati da compagni che c’erano già stati, raggiungevamo le due colonne per tuffarci da quel trampolino naturale rappresentato dal grande scoglio sul mare, proprio nella parte più sporgente dell’ampia insenatura. Nel 62/63 vi fu la pausa meneghina per motivi calcistici e lavorativi. A Milano io e mio fratello Michele facemmo amicizia con alcune ragazze baresi. Nelle due estati in cui siamo tornati per le ferie, ci invitarono a passare le vacanze con loro dalla parte opposta di Bari. Sia Lina che Rita avevano le nonne proprietarie di due villette nella zona di San Girolamo, e tutto il mese di agosto lo abbiamo trascorso nei lidi di fronte a quelle abitazioni. Chiusa la parentesi milanese, con i soldi messi da parte, ci comprammo la Lambretta 175, e tornare a Torre a Mare fu istintivo, spontaneo, naturale. Con i pullman potevamo permetterci di trascorrere solo la mattinata a mare, ma con lo scooter ci si tratteneva sino a sera inoltrata. Un incidente che mise fuori gioco il mezzo nel mese di giugno del 64, ci costrinse a riprendere il pullman. E le foto allegate ne sono una testimonianza. Si scendeva al casello Anas, si faceva il bagno alle due Colonne e si tornava a piedi a riprendere il mezzo pubblico. Adulti e indipendenti, con le auto che potevamo permetterci lavorando, dal 65 all’85 almeno la puntatina settimanale con le famiglie per cenare, o festeggiare qualche anniversario l’abbiamo sempre fatta. Poi proprio nell’85 da imprenditori portammo a termine la realizzazione di 47 case a schiera in territorio noiano, e non persi l’occasione di tenermene una, proprio per diventare cittadino stabile di Torrammare, pur conservando la residenza anagrafica nel mio studio di Bari. Tanti amici di Japigia, figli, parenti, e amici nuovi acquisiti sul posto mi fanno compagnia in questi anni innevati, con la viva speranza nel cuore che “u Sgnor” ci possa conservare tutti a lungo. Questo in sunto molto molto stretto il mio rapporto carnale più che settantennale con l’amata Torramare (le tre foto in bianco e nero sono quelle dell’incidente allo scooter del 64, costretti ad andare alle due colonne col pullman e fare un tratto breve a piedi; le due colorate, prese da Google, sono relative alla piazzetta Vittorio Veneto prima che diventasse pedonale, dove parcheggiammo la Balilla nello spazio che si vede in fondo, con auto più moderne parcheggiate, e il Belvedere ora occluso dal bar Las Vegas, l’altra è l’edificio della trattoria senza nome, dove cenammo quel 30 maggio del 1950, non ricordo se nella porta ad angolo o in quella a destra; per ulteriori chiarimenti, chiedete e vi sarà dato, tipo la spianata della Grotta, che corrisponde oggi a tutta l’area coperta da parco Atlantide, allora soltanto terreni incolti e con un solo grande albero di fico al centro)…