Dal bleu egizio al rosso carminio: a Santa Teresa dei Maschi il "Museo dei pigmenti colorati"
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venerdì 22 settembre 2023
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di Daniela Caiati - foto Rafael La Perna
Sì perché, nel tempio barocco divenuto sede della biennale d’arte BibArt si trova il “Museo dei pigmenti colorati”: una collezione di 40 rarissimi colori ricavati dagli ossidi di origine naturale. Polveri che un tempo venivano utilizzate per tinteggiare stoffe, dipingere affreschi e quadri, arricchire pareti e soffitti di antiche case. Prima della scoperta e dell’utilizzo su larga scala delle sostanze chimiche industriali.
Per scoprire la mostra (visitabile gratuitamente dal martedì al sabato dalle ore 10.30 alle 13 e dalle 16 alle 19), imbocchiamo strada Santa Teresa dei Maschi, via che conduce davanti alla facciata tripartita dell’omonimo tempio.
Appena superato il portale ligneo, entriamo nella chiesa per conoscere il direttore artistico del BibArt, Miguel Gomez. «I colori erano di proprietà di Pasquale Carenza, titolare dell’omonima ditta barese di prodotti vernicianti - ci spiega -. Lui collezionava pigmenti e dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2017, d’accordo con la figlia Enrica, abbiamo deciso di acquisire l’intera collezione per creare un’esposizione pubblica».
È il direttore a condurci davanti all’altare maggiore del XVIII secolo, lì dove sono posizionati alcuni dei preziosi pigmenti, illuminati da una luce chiara e custoditi in vasi di vetro. Il colpo d’occhio è notevole, con l’antico legno della cattedra che ben si presta ad accogliere i variopinti contenitori.
Svetta in alto il “giallo orpimento”, ricavato dal cristallo di solfuro di arsenico e che i Romani utilizzavano duemila anni fa per rappresentare l’oro negli affreschi. «È collocato sopra tutti gli altri perché contiene arsenico, un elemento tossico», ci spiega Gomez.
Notiamo poi il “verde cobalto”, la scurissima “piombaggine” o “prianegra”, la delicata “ardesia ventilata” posta accanto al più intenso “sandalo”, il “nero avorio”, il “bianco di San Giovanni” e il “bianco di Titanio”. Miguel ci mostra poi l’intenso “bleu oltremare” chiamato così dai Romani: è ottenuto dal lapislazzuli, una pietra preziosa.
Altro colore particolare è il “rosso cinabro”, preso in prestito dai Romani per dipingere vestiti e mantelli. Mentre l’acceso “rosso carminio” era utilizzato già da Maya e Aztechi e amato da pittori come Caravaggio. «È di origine animale - spiega il direttore -: tratto dalla cocciniglia boliviana (un ragnetto rosso). Vista l’ingente richiesta della sostanza sul mercato secoli fa i conquistatori spagnoli schiavizzarono gli indiani d’America costringendoli a catturare questi insetti, così da esportare il pigmento in Europa in grande quantità».
Invece il “bleu di Prussia” porta questo appellativo perché l’imperatore germanico volle utilizzarlo come colore delle divise dei suoi militari. «E si tratta di un pigmento nato per errore - precisa Gomez -. Pare infatti che un alchimista del 700 volesse dare un’intensità più vigorosa al carminio, ma utilizzò elementi contaminati da agenti esterni: così quando andò a miscelare gli venne fuori questo strano blu».
Ci spostiamo ora verso i due altari laterali, su cui sono poste 32 tra resine e terre naturali, utilizzate per la rifinitura e il restauro.
Ecco allora la “polpa di carta”, di origine orientale, usata ancora oggi per pulire gli affreschi perché cattura lo sporco senza intaccare il colore. Poi la bianca "madreperla", presa in prestito anche dalle donne egiziane per truccarsi il viso e la “resina d’Ammar”, una vernice per i dipinti.
E ritroviamo anche la mitica “mirra”, usata nelle rifiniture per conferire sacralità ai dipinti. È uno dei regali che i Re Magi portarono in dono al Bambin Gesù: prova del grande valore che queste sostanze avevano già in tempi antichi.
(Vedi galleria fotografica)
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