di Francesco Sblendorio

Totò Riina cittadino di Bitonto: quando il boss mafioso chiese di lavorare e vivere in Puglia
BITONTO – Fu decisamente caldo l’inizio dell’estate 1969 a Bari. Nessun riferimento al meteo, ma all’atmosfera che si respirò tra il Tribunale e la Questura del capoluogo pugliese, che nel giugno di quell’anno si trovarono alle prese con un “ospite” dal nome ingombrante e pericoloso: Totò Riina.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Della vita criminale del superboss di Cosa Nostra, morto il 17 novembre 2017, si è detto e scritto molto, ma tra gli episodi meno noti che lo hanno visto protagonista c’è un suo soggiorno bitontino che rischiò di trasformarlo in pugliese d’adozione, con conseguente deriva criminale nella Bari di inizio anni 70. Un tentativo ben raccontato dai giornalisti Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo nel loro libro del 1993: “Il Capo dei Capi”.

Ma andiamo con ordine. Nel 1969 il futuro capo della Cupola era già un nome di spicco nella malavita siciliana: dopo aver scontato una condanna per l’uccisione di un ragazzo avvenuta nel 1949, Totò fu nuovamente arrestato nel dicembre del 1963 perché immischiato nella “guerra dei cinque anni” che portò, tra le altre cose, all’eliminazione dell’allora boss di Corleone, Michele Navarra, per mano degli uomini di Luciano Liggio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Una faida per cui Riina e altri 63 esponenti della Mafia siciliana (tra cui il latitante Bernando Provenzano) furono portati a processo nel 1969: non però a Palermo (città nella quale si temeva che i magistrati siciliani potessero subire delle pressioni), ma a Bari.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Le udienze furono 47. Totò u’curtu le seguì tutte, seduto nell’angolo più vicino alla corte, senza mai perdere una battuta, con gli occhi puntati sui magistrati. L’accusa chiese complessivamente tre ergastoli e 300 anni di carcere. Si pensava che la sentenza di condanna sarebbe stata poco più di una formalità: le prove erano schiaccianti, supportate anche dalle testimonianze del pentito Luciano Raia.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma qualche giorno prima della fine del procedimento accadde qualcosa. La mattina dell’ultima udienza il postino consegnò al presidente della prima sezione della Corte d’Assise di Bari, Vincenzo Stea, una lettera proveniente da Palermo che fece impallidire tutti i giudici. «Voi baresi – era scritto – non avete capito o, per meglio dire, non volete capire cosa significa Corleone. Voi state giudicando degli onesti galantuomini, che i carabinieri e la polizia hanno denunciato per capriccio. Noi vi vogliamo avvertire che se un galantuomo di Corleone sarà condannato, voi salterete in aria, sarete distrutti, sarete scannati come pure i vostri familiari. A voi ora non resta che essere giudiziosi».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
 
A quel punto l’epilogo fu tristemente prevedibile. Le 307 pagine della sentenza del 10 giugno affermarono l’innocenza per tutti i 64 imputati. Nessuno fu condannato per associazione a delinquere né per omicidio. Non venne neppure riconosciuto che la mafia fosse un’organizzazione criminale. Riina se la cavò con la pena di un anno e sei mesi (non scontabile in carcere) e una multa di 80mila lire solo per il furto della patente di cui era in possesso al momento dell’arresto del 1963.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Libero da ogni accusa il futuro boss si diresse a quel punto verso Bitonto, lì dove viveva il suo avvocato Donato Mitolo e, assieme a Liggio, giunse all’Hotel Nuovo, un albergo oggi non più esistente. Qui i due corleonesi presero le camere 11 e 12 e dissero al direttore della struttura che si sarebbero fermati per qualche giorno.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


La loro idea era in realtà quella di stabilirsi a lungo nel Barese, per stare per un po’ alla larga dalla Sicilia ma anche per rendere possibile una “colonizzazione” mafiosa della Puglia.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Tant’è che il 14 giugno Riina presentò una richiesta di residenza all’ufficio anagrafe della cittadina a nord di Bari. Comunicò l’indirizzo del suo domicilio provvisorio, in via Anita Garibaldi e assicurò che sarebbe stato assunto come commesso nello studio legale del suo avvocato per poi acquistare pure un terreno agricolo nella zona.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Insomma c’erano tutte le premesse affinchè Riina, una volta diventato un perfetto cittadino pugliese, trasformasse Bari in una succursale mafiosa. La grandezza del Porto della città, la sua capacità commerciale e la presenza di infrastrutture avrebbero infatti rappresentato terreno fertile per traffici illegali di ogni tipo. Fu ciò che fece il napoletano Raffaele Cutolo nel 1979, quando fondò la “Nuova Grande Camorra Pugliese”, ma che non riuscì invece al siciliano.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Alle 8 del mattino del 17 giugno alla porta di Totò bussarono infatti due poliziotti: gli notificarono un foglio di via firmato dal siciliano Girolamo Lacquaniti, questore di Bari. Concedeva a lui e Liggio poche ore per lasciare il territorio di Bitonto e tornare a Palermo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Nel provvedimento si leggeva che i corleonesi erano considerati “socialmente pericolosi” e che sarebbero dovuti rimanere lontani dalla Puglia per almeno 3 anni. Riina e Liggio non dissero una parola: si limitarono a firmare le diffide e chiamare il loro legale per passare al contrattacco.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Il 19 giugno l’avvocato presentò così un ricorso al prefetto di Bari, che però fu irremovibile. La fermezza dello Stato scatenò le ire dei mafiosi, le cui urla pare si sentirono fino nella hall dell’hotel.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La sera del 20 giugno Mitolo accompagnò così Liggio a Taranto, dove il boss si ricoverò per motivi di salute, mentre Riina fu prelevato dalla Polizia direttamente in albergo e fatto salire sul treno Bari-Reggio Calabria, da cui poi avrebbe continuato il viaggio per Corleone.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Arrivato a casa, vi rimase però solo poche ore. Nel frattempo infatti la procura di Palermo aveva emesso nei suoi confronti un ordine di custodia cautelare: fu quindi subito condotto in città con le manette ai polsi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

I magistrati siciliani gli imposero quattro anni di soggiorno obbligatorio a San Giovanni in Persiceto, vicino Bologna. Dove Riina, però, non arrivò mai. Chiesti e ottenuti pochi giorni di permesso per motivi famigliari, fece perdere le sue tracce, dando inizio a una latitanza che si sarebbe protratta fino al 15 gennaio 1993, nel corso della quale sarebbe diventato il più spietato boss mafioso di tutti i tempi.


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