Intervista a Berengo Gardin: «La fotografia digitale? Falsifica la realtà»
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lunedì 16 giugno 2014
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di Katia Moro
Il libro è un’occasione per ripercorrere i 50 anni di carriera del pluripremiato fotografo ligure e raccoglie immagini prese da tutte le sue pubblicazioni: da “Venise de saisons” del 1965 che sancisce l’inizio della sua attività di paesaggista-reportagista, a tutte le fotografie fatte per il Touring Club Italiano (compresa la “Puglia”) sino ad arrivare ai libri-denuncia “L’Aquila prima e dopo” e “Polesine”. Abbiamo parlato con il maestro.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Perché pubblicare una raccolta?
Per fare un bilancio della mia carriera ma soprattutto per condividere con gli appassionati di fotografia tutto ciò che di positivo o negativo ho realizzato sino ad ora. Non tutti possono raggiungere le mie esposizioni, mentre un libro può arrivare a chiunque.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Come mai è così legato a questa forma di divulgazione tramite libro?
Perché guardare una fotografia in un’esposizione è come guardare un bel paesaggio dal finestrino di un treno: è un attimo e passa velocemente. Un libro me lo posso gustare con calma e riaprirlo tutte le volte che voglio. E poi tutto parte dalla mia formazione e dal forte legame con la lettura che mi ha influenzato sin da giovanissimo. Non a caso ho sempre avuto stretti legami con i più grandi scrittori del mio tempo con cui ho spesso collaborato nelle mie pubblicazioni: da Italo Calvino a Alberto Moravia, da Cesare Zavattini a Giorgio Bassani e Mario Soldati.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Lei infatti si definisce uno “scrittore che usa la macchina fotografica al posto della penna”.
Mi piace molto “raccontare” ma essendo timido non ho mai avuto dimestichezza con la parola. E così per me la fotografia è divenuta lo strumento per esprimermi e descrivere, recuperando il significato etimologico della parola “fotografare”, ovvero scrivere con la luce. La fotografia deve quindi raccontare qualcosa e farsi portatrice di un messaggio. Questa è la differenza tra la “bella” fotografia, illustrazione perfetta tecnicamente e la “buona” fotografia, che può essere anche imperfetta ma dice qualcosa, ha un significato.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Raccontare anche nel senso di testimoniare e denunciare?
Certo, per me la fotografia deve innanzitutto avere la funzione di denuncia sociale ed è in questo che consiste il reportage. Io non ho mai fotografato in zone di guerra perché odio qualunque forma di violenza e poi, a dirla tutta, sono un gran fifone e tengo alla mia incolumità. Ma per me denuncia sociale significa ad esempio documentare cosa accade in un manicomio come ho fatto in “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata” in collaborazione con Franco Basaglia, fondatore della concezione moderna della salute mentale. O “Una città una fabbrica. Ivrea e la Olivetti” in cui documento la capacità di un imprenditore di creare fabbriche con asili, servizi e persino spazi per esposizioni artistiche. O ancora “L’Aquila prima e dopo” in cui testimonio lo stato della città prima e dopo il terremoto, dimostrando come gli unici edifici a essere stati ricostruiti sono state le banche.
Lei ha sempre fotografato in bianco e nero…
Io sono cresciuto con la TV in bianco e nero, il cinema in bianco e nero e ho succhiato latte in bianco e nero. Non potevo che fotografare in bianco e nero. E poi secondo me il bianco e nero è più intenso ed efficace, mentre il colore distrae e annulla la centralità dei volti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Quali sono i suoi soggetti prediletti?
A me interessa ritrarre l’essere umano nella sua vita quotidiana, negli ambienti in cui vive e nei paesaggi che gli stanno intorno. Ho iniziato con la fotografia d’architettura che mi ha insegnato molto a livello tecnico, ma poi mi sono convertito all’aspetto sociale fortemente influenzato dal mio credo politico comunista. Per me la fotografia d’arte non esiste. Io mi reputo solo un artigiano non un artista. E lo dico con presunzione perché è più difficile essere un fotografo che un artista. E così mi distinguo anche da quelli che si definiscono tali ma che in realtà non sono altro che “imbrattatele”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Si riferisce ai fotografi che credono nel “non pensare, scatta”?
Esattamente. Io credo invece nel “prima pensa poi semmai scatta. E non è detto che debba scattare sempre”. Purtroppo questo è il cambiamento di mentalità a cui ha portato l’uso del digitale, per cui si fotografa sempre tutto e troppo senza selezionare. L’unico vantaggio della fotografia digitale è che puoi variare gli ISO (la sensibilità alla luce) in tempo reale, ma di contro c’è l'addio al fascino del rimanere rinchiuso in una camera oscura che non è paragonabile al freddo uso di un computer, oltre al forte rischio della falsificazione determinata soprattutto dall’uso indiscriminato del programma “Photoshop”, che io abolirei per legge, se potessi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per quale motivo?
Perché in questo modo la realtà viene taroccata e allora si deve parlare di “immagine” o “illustrazione” e non di fotografia, che invece è la riproduzione del vero. Per onestà in questi casi bisognerebbe dichiarare che si tratta di un’”interpretazione della realtà”, ma questa è un’accortezza che nessuno usa, soprattutto in Italia.
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Katia Moro
Katia Moro
I commenti
- Nicola - Non è la fotografia digitale che falsifica la realtà ma l'uso inidiscriminato e diffuso dei software di elaborazione. Anche in era analogica i falsi fotografici esistevano ma erano meno frequenti a causa della complessità realizzativa. Il digitale sembra aver avuto il merito di rendere fruibile la fotografia a tutti i livelli e l'effetto inverso di esaltarne la parte più kitsch.
- Leopoldo - Falsifica come l'analogica. Con la digitale lo possono fare quasi tutti, con l'analogica solo lo stampatore, se bravo, riusciva a farlo.
- Leopoldo Bon - Certe volte sarebbe meglio state zitti e non dare aria ai denti. Si capisce l'esperienza e la notorietà e la complicità degli addetti ai lavori. Ma basta con questi continui attacchi al digitale in queste forme bieche. Io fotografavo in bn sviluppavo e stampavo in bn. Non diciamo sempre idiozie dovute ad una sclerosi intellettuale.
- Leopoldo - Ma l'intervista è originale od un elaborato? Scusate sono professionalmente curioso.
- Leopoldo - Ma dove vengono pubblicati i commenti?
- Lucia - Bellissima l'intervista al maestro. E mi trova d'accordo su tutto tranne ke sull'opinione di Photoshop. Io la vedo così: qst programma serva più a mascherare gli errori di fotografi tecnicamente nn abbastanza bravi, ke a falsificare la realtà . Anzi talvolta restituisce alla realtà stessa quella luce o la prospettiva che il fotografo nn accademico nn era riuscito a catturare col suo scatto nn lavorato.
- Nicola - Ero presente alla presentazione del suo ultimo libro ed ha chiaramente detto che non ha nulla contro il digitale ma che proibirebbe per legge l'uso di Photoshop, usato come modificatore della realtà . Ha aggiunto che recentemente non ha potuto premiare nessuna foto ad un importante concorso perchè tutti avevano modificato la natura dei luoghi e delle architetture riprese.
- BARINEDITA - Caro Nicola, lei magari era presente alla conferenza, ma non all'intervista. Gardin ha detto le cose che abbiamo scritto. Se vuole le inviamo le registrazioni.
- Nicola - Ha detto tutto quello che avete scritto, parola per parola, solo dal vivo ha specificato che non odia particolarmente il digitale ma solo il software Photoshop. Per meglio comprendere, è possibile rivedere e riascoltare tutta la presentazione del libro di Berengo Gardin su Poliba Webtv. Saluti.
- Angela - Io la chiamo composizione ed elaborazione digitale
- Letizia - Grande maestro. Ho imparato molto da lui
- federico - Ehehehe io è la terza volta che seguo una presentazione di Gardin, questa non l'ho seguita ma sono sicuro che ha raccontato l'aneddoto della gara che non ha premiato in Toscana perché tutte le foto erano pesantemente taroccate con incollature di mulini e colline... ormai è ripetitivo....è un grande però quando ha iniziato lui sicuramente c'era qualcuno che diceva che la vera arte era la pittura e la fotografia era solo un gioco...e prima di lui c'era qualcuno che diceva che l'uso del fucile era da codardi perché i veri uomini combattono con la spada....si chiama progresso ;-)
- alvise - Sono stufo di leggere articoli che si schierano così forzatamente da una parte o dall'altra. Diciamo la verità, chi ha lavorato con i negativi e lo sviluppo ha applicato un numero infinito di tecniche per 'ottimizzare' i propri scatti, esattamente come facciamo con photoshop, o gimp. Se questi mostri sacri avessero sempre consegnato il negativo da sviluppare al negozio sotto casa, come facevamo tutti, e poi avessero aspettato con ansia le stampe... allora si potrebbero dire qualcosa. È solo una profonda rabbia per il fatto che tutti ora possono ottenere un qualche risultato decente, non solo i pochi eletti che avevano la possibilità di stampare in soffitta.