L'arte orafa, quando i gioielli si fanno a mano: «Ma ora c'è troppa fretta»
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lunedì 15 settembre 2014
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di Bianca Cataldi
L’orefice infatti “crea” un gioiello partendo da un disegno “su carta”, realizzato da lui stesso (magari su idea del cliente) con la sola matita, senza l’ausilio del computer e dei programmi per pc. Sebbene siano in tanti coloro che vendono gioielli e che si definiscono "orefici", sono davvero pochi i veri laboratori artigianali baresi (cinque o sei) e hanno tutti più di vent'anni. (Vedi foto galleria)
La differenza è sostanziale: il gioielliere a differenza dell’orefice acquista prodotti industriali già completi e pronti per la vendita o, in alternativa, compra una base modificabile. Ad esempio può acquistare anelli senza alcuna decorazione e modificarli incidendoli o semplicemente incastonando delle gemme. Questo però non è assolutamente artigianato. Non solo: la maggior parte di questi prodotti industriali non è italiana e viene importata dall'estero.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
L’orefice invece come detto crea un esemplare unico, pensato per il suo cliente lo realizza nel suo laboratorio. Può farlo in due modi: lavorando direttamente sui metalli (oro o argento) o utilizzando la tecnica della “cera persa”. In quest'ultimo caso si fa sciogliere un tubetto di cera e lo si rimodella manualmente, scolpendolo fino a renderlo identico al prodotto che verrà. Questo “gioiello di cera” servirà poi per creare lo stampo nel quale si andrà a versare il metallo fuso.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ma i baresi si rivolgono agli orafi? «Non è più come una volta – risponde Luigi - la richiesta di gioielli fatti a mano è diminuita tantissimo. E non è una questione di prezzo: i clienti preferiscono le marche, anche se costose, semplicemente perché sono marche». A parità di materiali usati infatti non ci sarebbe molta differenza tra il costo dell'oggetto griffato e quello del prodotto artigianale. «Nel primo caso il cliente paga il marchio e nel secondo paga la manifattura, ma il totale non cambia di molto», spiega Viterbo. Che sottolinea: «Il gioiello fatto a mano però puoi farlo come vuoi, lo puoi rendere veramente tuo».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Le sue parole sono confermate da Nicola Caradonna, presidente Confartigianato di categoria e creatore del Coori, un consorzio di orafi della terra di Bari. È lui (che ha intrapreso il suo percorso frequentando da apprendista una delle antiche botteghe orafe di Bari Vecchia) a guidarci assieme a sua figlia nelle stanze del suo grande laboratorio di via Melo. (Vedi foto galleria). Superato l'ingresso, ci troviamo subito in un ampio corridoio le cui pareti sono ricoperte di bustine colme di forme tondeggianti. «Questi sono gli stampi degli anelli che abbiamo creato nel tempo – spiega Nicola -. Su queste pareti ci sono tutti e venti gli anni della nostra attività e spero ci saranno anche quelli della seconda generazione, grazie a mia figlia».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La prima stanza del laboratorio è dedicata alla rifinitura del prodotto e quindi ci sono macchine come la stingette (ovvero la pulitrice), la sgrassatrice, la rodeatrice che schiarisce il colore dell'oro, il pantografo. Quest'ultimo è un vero e proprio pezzo d'antiquariato se consideriamo che si tratta di una macchina per incisioni manuali ormai superata dal laser. La seconda stanza è quella più grande ed è dedicata alla vera e propria creazione del prodotto. A destra vi è il banchetto per l'incassonatura, ovvero per l'applicazione delle pietre preziose, mentre di fronte a noi notiamo la trafila, che serve per tirare i fili d'oro e a sinistra abbiamo i due banchetti destinati alla lavorazione del metallo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Anche Caradonna punta il dito sulle difficoltà che sta incontrando questo lavoro. «Siamo ai limiti della sopravvivenza – afferma -. In Italia e soprattutto al Sud non si è in grado di apprezzare questa forma d'arte. Quando abbiamo esposto i nostri prodotti all'estero ne hanno parlato anche i telegiornali. Qui invece nessuno sa niente. Ora noi viviamo grazie ai piccoli lavori di riparazione e al riciclaggio dell'oro usato, che trasformiamo in qualcosa di nuovo. Purtroppo è così: siamo artigiani, siamo artisti, eppure il nostro lavoro si limita al semplice riutilizzo di metallo usato. Si è persa la passione per il manufatto, per il prodotto originale che nessun altro possiede all'infuori di noi».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ed è un peccato, perché l’’oreficeria è arte. Lo dimostra Caradonna, che assieme al Coori ha portato avanti un progetto che ha visto la fusione tra oreficeria e arte contemporanea pugliese. Partendo da un quadro del pittore barese Raffaele D'Accolti, sono state ideate fibbie e anelli in oro e diamanti ispirati ai soggetti del dipinto. «Abbiamo impiegato due anni per trovare i diamanti viola che abbiamo incastonato nei gioielli – sottolinea Nicola -. Quelle non sono gemme trattate e colorate: sono veramente viola e sono rarissime».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
In passato però era tutto diverso. «Prima si realizzavano gioielli veri, belli sul serio - ricorda il responsabile di un’oreficeria aperta in via Melo dal 1947 -. Che cosa è cambiato? Il tempo e la pazienza a disposizione del cliente. Servono infatti almeno due mesi per realizzare un gioiello totalmente fatto a mano partendo da un disegno. La gente ha fretta, ma è veramente difficile creare qualcosa di importante avendo a disposizione pochi giorni».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
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Scritto da
Bianca Cataldi
Bianca Cataldi