L'antica pratica di "fasciare" i neonati: «Li faceva crescere dritti e robusti»
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mercoledì 3 marzo 2021
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di Federica Calabrese
«Certamente non serviva a prevenire problematiche ortopediche o malformazioni – ci spiega un medico barese –: parliamo invece di una pratica dannosa che poteva provocare lussazioni. In più era dolorosa per i neonati».
Tuttavia anche nel capoluogo pugliese questa usanza era molto comune. Le fasce facevano persino parte del corredino preparato per i nascituri, il cosiddetto mbascianne: una “collezione” di stoffe di varia foggia talvolta decorate con merletti, ciascuna con un nome e una finalità particolare.
Ma come funzionava l’infasciatura? La procedura contava su vari step. Innanzitutto si ponevano su un piano due tipologie di stoffe rettangolari rigate: la prima, più ampia e più spessa, era lo strato più esterno, mentre la seconda, il pedarulo, aveva il compito di rinforzo all’altezza della vita e poteva recare le iniziali del padre del bimbo ricamate in un angolo.
Si può a buon diritto parlare di “rituale”, persino un po’ sacro. «Avendo una sorella piccola ho assistito a questo momento tante volte – riferisce la signora Gianna –. Prima di legare il pedarulo si era soliti fare il segno della croce sul bambino per augurarsi che crescesse sano».
A quel punto si procedeva con il pannolino, un tempo anch’esso di stoffa, che a ogni cambio veniva lavato e sterilizzato in acqua bollente e sostituito con uno pulito. A volte però i piccoli ne indossavano più di uno. «Mia mamma mi raccontava che me ne metteva addirittura due per sicurezza, per tenere ben separate le gambe», sostiene la signora Daniela.
Dopodiché, una volta sistemati i tre strati precedenti, il tutto si fissava con delle fasce lunghe anche 2 o 3 metri. Avvilupparle attorno al piccolo era la fase cruciale, perché da questo passaggio poteva dipenderne la corretta crescita. Bande che si chiudevano con un nastro azzurro per i maschietti e rosa per le femminucce. Infine il bebè così “imbalsamato” veniva infilato in un sacchetto di pezza che lo avvolgeva fin sotto le ascelle in modo da rendere visibile solo la testa, spesso decorata anch’essa con una cuffietta.
Tutti questi involucri davano agli infanti non solo un aspetto bizzarro, ma anche un certo peso. «Quando avevo in braccio la mia sorellina di pochi mesi non trovavo facile reggerla – ricorda il signor Lorenzo : sembrava un pupazzo e tutt’altro che leggero».
Però tutto questo era giudicato necessario per prevenire i difetti fisici, anche se gli ex “fasciati” si dividono sull’utilità effettiva della pratica.
«Sono stata fasciata fino a un anno e non ho malformazioni», afferma convinta la signora Sabina. C’è però chi è un po’ scettico, come la 70enne Luana, che ci confessa: «Io fui fasciata, mia sorella del 1958 no, ma le gambe le abbiamo dritte tutte e due». Infine ci sono coloro che bocciano totalmente l’usanza. «Sebbene io abbia subito il trattamento fino all’età di un anno - dichiara Elvira - penso che mia madre non lo abbia fatto nel modo corretto, visto che sin da bambina convivo con un’evidente scoliosi». «Non serviva a nulla – incalza Natalia -. Anzi mio marito per colpa di questa prassi ha due vertebre calcificate che gli causano dolori tremendi».
Il trattamento per fortuna decadde sul finire degli anni 60 grazie all’avvento dei pannolini usa e getta e alla progressiva diffusione di dispositivi medici come tutori e divaricatori utili a correggere anomalie delle anche o degli arti.
Ci fu però qualche nonna che continuò imperterrita a tramandare questa pratica, specie nelle campagne del barese. «Mia madre – ci confida il signor Enzo – conservò le fasce in cui venivo avvolto da piccolo e pensò bene di utilizzarle anche sui miei figli, negli anni 80. Il risultato? Sono venuti su con le gambe ad arco».
(Vedi galleria fotografica)
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
I commenti
- Paolo - In effetti era una pratica dannosa: costringere le cosce in quella posizione innaturale spesso causava lussazione della testa del femore.