di Francesco Sblendorio

Da Enzo a Vincy, da Pina a Giusy: come e perché sono cambiati i diminutivi dei nomi italiani
BARI – C’erano Nella e Rina, Tore e Bastiano, Vanna e Sisina, Enzo e Mimmo. Sono i nomignoli di una volta, quelli che venivano creati o tagliando l’ultima parte del nome di battesimo (esempio: da Gaetano a Tano) oppure trovando prima un diminutivo per poi andare a “salvare” le ultime 4-5 lettere (Gaetano-Gaetanino-Nino oppure Gaetano-Gaetanuccio-Uccio).Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

La consuetudine di accorciare i nomi in realtà non è mai cambiata, avviene anche ora, solo che negli ultimi anni si è assistito a uno strano fenomeno: oggi infatti si usa troncare il nome prendendo però solo le prime lettere (e non più le ultime) e aggiungendovi magari una “y”.

Qualche esempio? Partiamo dai nomi maschili. Prima Salvatore si trasformava in Tore, oggi in Salva. Sebastiano era Bastiano oggi invece è Seba. E se una volta c’era Lino (da Pasqualino) ora c’è Paky, come Mimmo (da Domenico) è stato sostituito da Dome o Domy. Ancora: Gaetano prima diveniva Tano, ora è Gae. Gennaro si “rimpiccioliva” in Rino mentre ora è Genny. Vincenzo era per tutti Enzo, mentre adesso è Vince o Vincy. E Francesco che diveniva Ciccio o Checco ora è solo France o Francy.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Le donne invece non si chiamano più Rina (diminutivo di Caterina) ma Cate, Vanna (da Giovanna) è diventata Giovy, Nella (da Antonella) si è trasformata in Anto e Giuseppina in Giusy. Mentre Teresa che diveniva Teresina e quindi Sisina oggi è Terry, così come Elisabetta, che poteva essere Betta o Etta, ora è Ely.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ma da dove deriva questa radicale trasformazione? «Si tratta di un fenomeno che non è solo linguistico, ma è sintomo di un generale cambio di stile di vita nella nostra società – ci spiega la linguista Valeria Della Valle -. C’è infatti una tendenza a imitare tutto ciò che viene dal mondo anglo-americano: un qualcosa che si è affacciato da noi già all’indomani della Seconda guerra mondiale, prima nelle grandi città del Nord e poi anche al Sud. Dal punto di vista lessicale, questo ha interessato prima i nomi comuni: il frigorifero cominciò a essere chiamato solo “frigo” e la bicicletta “bici”. Poi la troncatura ha iniziato a colpire anche i nomi propri».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


In effetti gli esempi di “accorciamenti” nel parlato d’Oltremanica e in quello a stelle e strisce si sprecano. Per i nomi propri andiamo da Archie per Archibald a Eddie per Edward, da Robbie per Robert a Willy per William. Ma anche nei nomi comuni c’è un impiego ossessivo nella troncatura della parola. Solo per citarne alcuni, è usanza consolidata usare info per introdurre qualsiasi information, mentre nel gergo giovanile soprattutto afroamericano è d’uso bro in luogo di brother. Così il teen-ager viene chiamato teen, chi compra la verdura acquista veggie più che vegetables e un divano particolarmente comodo è quasi sempre comfy e non comfortable.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

E così, dopo aver preso in prestito un’infinita serie di parole inglesi (da weekend a stalker, da manager a okay), gli italiani hanno fatto loro anche la "mania" di spezzare le parole.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

«I primi a usare le forme troncate sono stati i ragazzi, ma gli adulti si sono adeguati presto - avverte la docente -. Possiamo in fondo definirla una moda, anche se va detto, per quanto riguarda i nomi di persone, che i classici diminutivi stavano cominciando ad avere un po’ un “sapore di altri tempi”. Al contrario delle forme troncate che invece fanno apparire tutto più moderno e rendono più veloce il parlato».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Perché sì, in effetti, “Gius” è sicuramente più figo di Pinuccio.


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  • Vito Petino - Da fanciullino, in famiglia e parentela affine, l'uso del diminutivo dei nomi era maniera radicata in gente nata negli ultimi decenni dell'800. Così una volta nato erano tanti i nomi ristretti fra i parenti, e non mi ponevo il problema di quale fosse l'origine di ogni nome, usanza a me sconosciuta. Per me erano quelli che sentivo e imparai. Zia Chella, zio Nando, zio Nino, zio Uccio, zia Nina. Le cugine e i cugini erano Tina, Nino, Lillino, Ririna, Gino, Gianni, Michi, Isa. Anche fra i miei, a eccezione di mia madre che il suo Rosa diveniva vezzeggiativo allungato in Rosetta, mio padre da Francesco all'anagrafe per Mamma divenne Franco, e anche per tutti i suoi nipoti; per le sorelle e suo padre Cecco, per tutte le zie Cilluzzo, per i colleghi di ferrovia Ciccillo, per i vicini di casa Don Ciccio; i miei fratelli Lilli, Nico, Tonio; ai miei figli , esclusa la prima che il Rosa è rimasto invariato, ho distribuito diminutivi, Cia, Gabri, Francy, Bepi; solo l'ultima ha due nomi, Maria Antonella, da noi ridotto in Marella, mentre lei ha preferito Anto in via definitiva. Ebbi un'altra figlia che chiamai Francesca, ma sorte contraria fece che quel nome lo portasse soltanto per 28 giorni prima che salisse al Cielo. Quella di zio Uccio è la vicenda che mi fece scoprire i veri nomi di tutti quei diminutivi. Zio Uccio era cugino di Babbo, ma lui ci ha educati a chiamare zio e zia i suoi cugini. Con zio Uccio ho avuto un legame particolare, ci vedevamo spesso a casa della madre, zia Chella Traversa, zia di Babbo e sorella di sua madre Elvira, che perse quando aveva 8 anni appena. Zio Uccio mi comprava spesso gelati dal bar Pellecchia in Largo Adua, mentre lui e mio padre sorbivano un caffè. La domenica si allungava, non sempre, sino al Barion, dove zio Uccio era socio. Un sabato sera a inizio primavera è lì che vidi il primo ballo delle diciottenni che debuttano in "società". Non avevo mai assistito a una festa simile. M'illusi che dopo pochi anni, smessi i calzoni corti, avrei partecipato anch'io a una manifestazione simile. Ma le cose andarono diversamente. Avevo dieci anni quando Babbo mi portò a vedere una mostra pittorica alla Pinacoteca della Provincia; Babbo era amante di quell'arte e spesso si cimentava con pennelli, tavolozza e tela. Appena usciti, mi disse di voler andare a far visita a zio Uccio che, due isolati dopo sempre sul Lungomare, lavorava come addetto stampa in uno degli uffici della IV ZAT. Ci fecero salire al secondo piano ed entrare in una stanza con una grande vetrata sul mare. Dopo i saluti, Babbo e zio Uccio si misero a parlare, io a girare gli occhi intorno. E notai a un tratto che sulla scrivania c'era una targa "Avv. Renato Belviso". Quando andammo via, chiesi a mio padre chi fosse quel Renato, svelandomi l'arcano anche degli altri diminutivi. E così a dieci anni scoprii che Uccio derivava da Renatuccio...


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