Fantasmi, monache, leggende e abbandono: è la misteriosa Masseria Dottula di Bari
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giovedì 25 gennaio 2018
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di Angela Pacucci e Vincenzo Drago - foto Antonio Caradonna
Del suo passato indecifrabile ce ne occupammo per la prima volta nel 2013: già all'epoca fummo sorpresi dalla difficoltà nel rintracciarne i proprietari, dalle voci confuse sul fatto se si trattasse o meno di un ex convento e dalle storie di suore assassine e di un fantasma che ne infesterebbe gli ambienti. Così a distanza di cinque anni siamo tornati sul posto per fare chiarezza. Il risultato? Un alone di incertezza ancora più grande.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ma partiamo dai pochi elementi certi. La dimora fu realizzata nel 1735 ed è sicuramente stata costruita da Giordano de Bianchi Dottula, Marchese di Montrone, la cui stirpe ha dato il nome anche a uno degli splendidi palazzi nobiliari di Bari Vecchia. Nel 1882 passò poi nelle mani di Gaetano Favia Vernazza, Duca di Castri: e questa è l'ultima notizia incontestabile di cui disponiamo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Non sappiamo a chi sia appartenuta la masseria nei decenni a seguire e soprattutto non conosciamo chi sia l’attuale padrone del podere. Chi abita nel Quartierino non sembra però avere dubbi. «E’ di un'impresa edile di Taranto - ci dice Maria, una signora del vicinato -. Il titolare si chiama Stefano Argento». Contattiamo così il diretto interessato, che però smentisce tutto. E in effetti la visura catastale restituisce altri nomi: Francesca Binetti e Giuseppe e Luigi De Grecis, forse i figli della donna. Proviamo ad ascoltarli, ma risultano tutti e tre irrintracciabili.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ma il dubbio più grosso riguardante la masseria Dottula è quello se in passato abbia effettivamente ospitato un monastero di suore. Perché tutti quelli che conoscono l’edificio non hanno dubbi. Ad esempio Nicola De Toma, storico del territorio barese, affferma: «Lì c'era un convento e questo è suggerito dall'architettura dell'immobile».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Sì è così - dichiara Giuseppe Magno, un signore che negli anni 60 viveva in quella zona -. Nel giardino c’è una botola coperta da una roccia massiccia: ebbene da piccolo sentivo dire che da lì partisse un tunnel che sbucava in un altro luogo religioso simile, nei pressi del quartiere Carbonara».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ma noi non siamo riusciti ad accertare questa tesi: non c’è nessun libro, nessuno storico, nessun dato certo che attesti che in quel luogo abbiano vissuto delle monache. Eppure le leggende a riguardo si sprecano, come quella del "monachicchio": lo spirito di un bambino dato alla luce da una suora dopo un rapporto clandestino e seppellito vivo da altre monache per rimediare a "un'offesa" a Dio. «Ricordo che il piano superiore della struttura era abitato da diverse famiglie in affitto - dice Giuseppe -, tutte imparentate tra loro e di cognome Mancini. Un anziano di nome Giovanni, si divertiva a spaventare i bambini proprio con la storia del "monachicchio"».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Sarà, ma è più plausibile che nel complesso al posto delle preghiere si producesse olio. Lo confermano sia alcuni volumi, sia Nino Greco, presidente dell’Archeoclub, sicuro della presenza di resti di tipiche macine (che noi però non abbiamo trovato).Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Magno invece sembra più scettico. «Da piccolo gironzolavo per i corridoi della masseria - spiega - e ricordo che il signor Tommaso, padre di diversi bambini con cui giocavo, lavorava nei vani posti sotto il livello del terreno per costruire filtri per frantoi. Può essere che questi strumenti venissero collaudati nella villa e che per questo venissero spremute delle olive, ma non credo che lì dentro si facesse l'olio».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per cercare di dare una risposta a questa montagna di interrogativi abbiamo visitato la costruzione. Si erge precisamente tra viale Pasteur e via delle Murge, poco prima del ponte di viale Solarino che costeggia il Policlinico. Dall'esterno appare compatta, con le sue pareti in muratura e ingentilita da arcate che ne caratterizzano buona parte del perimetro all'altezza dell'unico piano superiore. (Vedi foto galleria)
I tre ingressi laterali di via delle Murge, dei quali quello centrale presenta due arconi quadrati in bugnato che poggiano su altrettanti piedistalli, sono tutti murati. Decidiamo quindi di scavalcare il muretto che separa la dimora dal ponte e percorrendo un piccolo sentiero arriviamo sul retro della struttura. La facciata verso cui andiamo incontro è divisa in due ordini: uno inferiore con arcate in basso rilievo, anch'esse chiuse e uno superiore con due arcatelle centrali, dalle quali si apre un terrazzino rimasto senza ringhiere.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ci troviamo nel cortile, invaso dalla vegetazione spontanea e dall'immondizia e attraverso un buco in una parete riusciamo ad accedere al piano terra dell’edificio, contraddistinto da un'ampia volta a botte e poche finestre. L'ambiente è umido e semibuio, deturpato da scritte sui muretti e con coperte sparse qua e là, presumibile prova del passaggio di qualche senzatetto.
Per raggiungere il piano di sopra non ci sono scale: siamo quindi costretti a uscire e ad arrampicarci dall’esterno. Sono circa una decina i vani che riusciamo a osservare, tutti spogli e invasi da ogni tipo di rifiuti: bottigliette, sacchetti di plastica, pile di pneumatici e persino una valigia.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Percorriamo il portico che circonda la struttura, facendoci largo tra le sterpaglie e ci ritroviamo in un corridoio strutturato con imponenti e “gotiche” volte a padiglione, a tratti rinforzate con assi di ferro. Eh sì, ora ci sembra proprio di essere in un tipico monastero e nel silenzio ci pare di avvertire una voce: che sia quella del monachicchio?
(Vedi galleria fotografica)
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
I commenti
- Tommaso Boccuto - Da ragazzino abitavo su viale Papa Giovanni XXIII ed ho assistito alla costruzione del ponte, frequentavamo il monastero, così lo chiamavano perché ricordo benissimo una targa in marmo posta su un arco all'ingresso del primo piano,su cui era scritto Che la proprietà era stata donata dai conti De Giglio per farne un monastero con la data che se ricordo bene era 1726 , probabilmente è vero dato che in zona alcuni terreni sono di proprietà della famiglia De Giglio, compreso anche dove ora vi è una costruzione con i vetri azzurri,in prossimità della ferrovia ed adiacente ad un fornitore di materiale per edilizia che guarda caso e proprietario De Giglio, perciò comincerei con chiedere a loro notizie, sicuramente la famiglia è la stessa,sono tante le coincidenze,i terreni della proprietà De Giglio si estendono fino a Parco Adria ne sono sicuro al 100% perché avevo anche io un lotto confinante che poi ho venduto ad una marmeria,che ha installato un carroponte,spero sia stato d'aiuto,in ogni caso potete telefonarmi al 3926618347,lasciate prima un SMS perché raramente rispondo a sconosciuti per ovvi motivi
- BARINEDITA - Grazie mille Tommaso per la disponibilità. Cercheremo di approfondire ulteriormente. Un caro saluto
- Monachicchio - Ho vissuto in quella casa per quasi due anni, ma non ho visto spiriti e nessun monachicchio. Ho avuto alcune esperienze speciali in quella casa, ma non a causa della casa, ma a causa delle mie preoccupazioni.