Ipogei, affreschi e necropoli: è Masseria Tresca, il complesso barese salvato dal degrado
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venerdì 6 maggio 2022
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di Mina Barcone - foto Nicola Velluso
La struttura, del 1685, è stata infatti riportata all’originario splendore nel 2009, rivelando preziose tracce della sua storia: vanta un importante ipogeo, i resti di un frantoio, affreschi seicenteschi e persino le rovine di una necropoli.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Una riscoperta che segue a decenni di oblìo. Dopo il suo totale abbandono risalente agli anni Cinquanta, il complesso fu vandalizzato, utilizzato come discarica abusiva e negli anni Novanta sfruttato come rifugio di fortuna dai profughi albanesi approdati a Bari a bordo della Vlora.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per fortuna oggi quel passato travagliato è soltanto un lontano ricordo ed è possibile ammirare la Masseria già dalla tangenziale di Bari, lì dove svetta nei pressi dell’uscita per Poggiofranco. Per visitarla basta prendere la statale 16 in direzione nord, imboccare il predetto svincolo e poi dirigersi verso via Tatarella. Dopo pochi metri il fabbricato apparirà sulla sinistra, al civico 59 di via Camillo Rosalba, protetto da un cancello automatico. (Vedi foto galleria)
Ad accoglierci c’è il proprietario Antonio Resta, che nel 2005 ha deciso di rilevare il complesso e, a seguito della lunga ristrutturazione, di farne la sede della sua azienda, la quale si occupa proprio del restauro di beni storici e artistici.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Una volta superata la cancellata, percorriamo il vialetto in pietra delimitato da vasi in terracotta e ci ritroviamo di fronte all’abitazione costruita nel 1685 dalla famiglia Carducci e poi passata nel Settecento ai Tresca-Carducci.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Illuminata da un tiepido sole primaverile, ci appare in tutta la sua semplice bellezza. La bianca dimora presenta una struttura a base quadrata, la cui conformazione è interrotta da una torre centrale che la domina completamente. Sulla sinistra si sviluppano tre archi a tutto sesto (probabilmente rappresentavano la base di una loggia superiore oggi assente), uno dei quali ospita l’ingresso dell’edificio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Tutt’intorno ulivi, siepi e arbusti. L’ampio giardino che circonda la masseria è un tripudio di verde ma non solo: il perimetro del fabbricato è arricchito da panchine, mentre le aiuole sono puntellate da macine in pietra di diversa grandezza, che richiamano subito alla mente il periodo in cui qui si produceva l’olio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Fino agli anni 50 - racconta Resta - questo casale è stato un centro di produzione agricolo molto attivo e il vecchio “padrone”, un certo signor Mangialardi di Triggiano, aveva possedimenti terrieri sia da un lato che dall’altro della masseria. Purtroppo poi con la realizzazione della tangenziale le sue terre furono praticamente divise a metà e venne costretto ad abbandonare questo luogo relegandolo a deposito».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Entriamo ora nella dimora e, superato l’ingresso, dove fa bella mostra uno scatto risalente agli anni 80, attraverso uno stretto corridoio ci dirigiamo in uno degli ambienti a piano terra che ospita le tracce del vecchio frantoio. L’aspetto e l’arredamento sono moderni e le pareti sono abbellite da fotografie a colori della masseria, ma a catturare la nostra attenzione è la grande macina in pietra, ormai priva della sua funzione e diventata semplice ornamento, che fa da base al tavolo di vetro al centro della stanza.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Torniamo indietro per incontrare i resti della piccola cappella dedicata a Santa Teresa, costruita insieme al resto della masseria ma quasi del tutto scomparsa. Il vano che la ospitava è caratterizzato da un soffitto architravato che custodisce l’affresco di San Francesco da Paola, riconoscibile dagli attributi iconografici tipici del religioso eremita: ha la barba bianca, indossa il saio, fra le mani stringe un bastone e la sua figura è capeggiata dal motto charitas.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Accanto al frate vi è poi l’immagine dai colori tenui di un volto femminile addolorato, quello della Madonna in preghiera.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Non ci resta ora che spostarci sul retro della struttura, passando da una porta a vetri. Troviamo dall’altra parte un secondo giardino, quello che si affaccia sulla tangenziale: il prato inglese ricopre il pavimento e accoglie numerosi alberi da frutto. Ci sembra di trovarci in un’oasi appartata, pur essendo a due passi dalla strada trafficata.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Da qui riusciamo anche a notare come la struttura presenti facciate di colore diverso, una scura e una più chiara. «Sono stati utilizzati materiali diversi nella costruzione – spiega il proprietario -. Nelle prime due fasi è stato usato un tipo di pietra resistente, mentre nell’ultimo intervento settecentesco è stato introdotto il tufo, meno nobile ma tenero e lavorabile».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
E proprio la parte più antica della masseria ospitava le stalle, come suggeriscono i massi forati sul muro dove venivano legati i cavalli e le mucche.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
L’ultima tappa del nostro viaggio è rappresentata dall’ipogeo, databile intorno al XIII-XIV secolo, al quale arriviamo attraverso un arco: un passaggio che pare dividere la proprietà fra la zona abitabile e quello che sembra essere un vero e proprio museo a cielo aperto.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Questo sito ha un’importanza storica notevole - spiega Antonio -: pare sia sorto sulle fondamenta di un complesso monastico dei primi secoli dopo Cristo. A sostegno di questa tesi vi sono i ritrovamenti di un gran numero di sepolture nei pressi dell’ipogeo: una sorta di piccola necropoli».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Secondo gli studi del professor Francesco Dell’Aquila, Masseria Tresca sarebbe anche identificabile con l’area del casale di Sao, le cui testimonianze risalgono al 1036, quando si trattava di un villaggio bizantino circondato da terre coltivate con ulivi, viti, orti e frutteti.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Facendo attenzione a muoverci fra le impalcature che ne reggono la struttura pericolante, approdiamo così al sorprendente sito sotterraneo, profondo circa tre metri: qui sorgeva il primo frantoio precedente alla costruzione della dimora, realizzato intorno al 1200. Sulla superficie sono visibili delle fessure all’interno della roccia, quelle che dovevano essere le tombe a fossa della necropoli, risalente al predetto insediamento.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Senza farci intimorire dal buio e dalle pietre scoscese, accediamo attraverso un’apertura centrale e tramite dei gradini arriviamo nel principale vano rettangolare con volta a botte, dal quale si diramano altri ambienti più piccoli, angusti e poco illuminati, probabilmente le celle in cui riposavano gli uomini adibiti alla molitura.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Alcune macine sono abbandonate solitarie per terra accanto a un pozzetto scavato nel pavimento. Veniva usato all’epoca per la raccolta degli scarti delle olive, quando questo luogo era abitato e vitale: prima che il degrado si imponesse nella magnifica e antica area attorno allo Stadio San Nicola.
(Vedi galleria fotografica)
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
I commenti
- Vito Petino - Nel 1965 fui ingaggiato dai fratelli ingegneri, i Diotallevi di Roma, quale contabile di cantiere per il calcolo del numero dei viaggi di tufina e relativa volumetria, che i camion ribaltabili scaricavano sulla costruenda Circonvallazione di Bari, nel tratto Poggiofranco Japigia; tufina che, una volta compattata alla perfezione dai rulli compressori delle enormi e lente macchine per costruzioni di strade, si trasformava nell'elastico tappetino carrabile a copertura della sottostante massicciata pietrosa e ghiaiosa, per essere a sua volta coperto dal manto d'asfalto finale. Si cominciava a lavorare alle 7 del mattino. E qui entra nel centro della storia la masseria Tresca, allora per tutti noi lavoratori soltanto la Masseria di Giacomo e sua moglie Teresa, massari che conducevano con l'aiuto dei figli il rustico che fungeva anche da abitazione e il terreno agreste circostante. La Masseria aveva stalla e mucche, non in gran numero, ma sufficiente oltre misura alla produzione del fabbisogno familiare di latte, col sovrappiù venduto alla locale Centrale del Latte. Uno dei due fratelli Diotallevi concluse un contratto con Giacomo, accordo remunerato che prevedeva la colazione con pane fresco e latte appena munto per tutte le maestranze. E per sei mesi ci siamo rifocillati nella Masseria ogni mattina alle sette meno un quarto. E a sera molte volte gli operai sposati portavano a casa una sporta di ortaggi, verdure e frutta fresca, che Giacomo, Teresa e figli, approntavano per una modica cifra simbolica, a suggello dell'amicizia e familiarità nata con noi. Terminato quel cantiere, gli ingegneri me ne proposero altri in luoghi lontani. Ma io avevo ben altri voli in mente fra i tanti che la vita ancora giovane mi offriva...