Bari, quella dimora che si erge dal 1896 alla fine di via Amendola: è Villa Lorusso
Letto: 17375 volte
giovedì 27 ottobre 2022
Letto: 17375 volte
di Gaia Agnelli - foto Mimmo De Leonibus, Valeria Genco
Strada che è lecito definire “monumentale”, perché da sempre costellata di edifici di fine 800/inizio 900, alcuni dei quali ben tenuti (come Villa Bonomo o Villa Sbisà), altri abbandonati (Villa Tilde, Villa Capriati), altri ancora abbattuti per far posto a nuovi fabbricati (Villa Vera, l’ex sede della Peroni).
Tra le residenze signorili che godono di buona salute c’è proprio Villa Lorusso, posta sulla destra di via Amendola poco prima dell’incrocio con strada Pezze del Sole, in direzione Mungivacca. (Vedi foto galleria)
A introdurla è un elegante cancello nero incastonato tra due alte colonne in pietra di tufo che riportano il nome dell’edificio, sotto il quale resiste la pietra miliare sulla quale è segnata la data di costruzione: 1896.
Varchiamo l’ingresso e imbocchiamo un curato viale alberato che ospita due piccole panchine e alti arbusti che fanno da cornice alla dimora recentemente ristrutturata, che trova spazio alla fine del sentiero. La struttura, bianca e grigia, si sviluppa su due livelli (oltre a un piano sotterraneo) e presenta tre aperture ad arco a tutto sesto delimitate da lesene, tra le quali spicca lo stemma di famiglia: un ovale grigio sul quale si intersecano a caratteri bianchi una F, una S e una L.
«Sono le iniziali dell’avvocato Francesco Sabino Lattanzio, il fondatore della tenuta – ci dice il 71enne Carlo Lorusso, attuale proprietario –. Fu lui infatti, zio di mio padre, a far costruire questo edificio che ha portato il suo cognome fino agli anni 40, quando poi passò nelle mani del mio omonimo nonno».
Carlo è lo stesso bambino, ormai cresciuto, che giocava tra i giardini e le scalinate della struttura nel filmato del 1959 da noi pubblicato in un precedente articolo.
«Avevo otto anni – racconta – e all’epoca mio padre Michele stava ristrutturando la villa per trasformarla da residenza estiva in abitazione vera e propria. La Topolino che si vede nel video apparteneva alla ditta di costruzioni: la Giuliani».
Risale a quel periodo la realizzazione, davanti alla facciata, della vasca sulla quale primeggiava una statua di Venere al bagno, da poco sostituita da una fontana neoclassica circolare in marmo iraniano. La vecchia scultura è oggi conservata tra le aiuole del giardino, lì dove trova anche posto un cimelio ultracentenario: un “nettascarpe” usato anticamente per pulire le calzature dal terreno.
Ci spostiamo ora sul lato sinistro della villa, dove possiamo ammirare il colore grigio che distingue le membrature architettoniche su fondo chiaro. «Si tratta di un elemento insolito in Puglia – sottolinea l’architetto Simone De Bartolo –: è una bicromia “alla fiorentina”, diffusa nel capoluogo toscano. Le finestre bifore e monofore sono anch’esse inconsuete in quanto inquadrate da archi ribassati e non a tutto sesto (semicircolari), come invece è facile notare nel neoclassico “ortodosso”».
Di fronte alla facciata laterale si staglia un edificio più piccolo, preceduto da un tavolino in pietra originale sul quale sono posati una campana di ferro e due vasetti.
«È la dèpandance – spiega Lorusso –, realizzata anche questa nel 1896 per trovare una sistemazione alla famiglia del contadino che avrebbe lavorato per noi: il signor Sforza. Lui e la moglie avevano undici figli, perciò in questa struttura vissero ben tredici persone. Si occupavano della manutenzione del giardino, dei terreni e della stalla che un tempo ospitava alcuni cavalli. Oggi degli Sforza è rimasta ad abitare qui solo Anna, pittrice barese che ha trasformato il giardinetto adiacente alla dipendenza in un vero e proprio gioiello di arte e botanica».
Percorrendo un vialetto laterale si giunge così davanti a un pozzo ottocentesco sistemato su delle “chianche” bianche dell’epoca. «Da oltre quarant’anni non è più in funzione – afferma la nostra guida –, ma prima raccoglieva l’acqua piovana grazie a dei canali che si trovavano ai lati dello stabile».
Pozzo che prima si trovava più molto più avanti: sui terreni che, in seguito al recente allargamento di via Amendola, sono stati espropriati per fare spazio all’asfalto.
Un “taglio” lungo 11 metri (in larghezza) che ha permesso però di rendere più visibile la villa dalla strada. «Sì, anche se ho dovuto sacrificare due alberi secolari, perdendo una grande fetta di giardino – sottolinea Lorusso – . In compenso l’ingresso è oggi più distante dalla carreggiata grazie a un marciapiede ben più ampio del precedente».
Torniamo ora indietro per andare a visitare parte degli interni della struttura. Carlo ci invita a salire la doppia rampa di scale che conduce al piccolo portico sormontato da un altro cimelio: il lampadario nero in ferro battuto.
Una volta entrati in casa, ci ritroviamo in una stanza dalle pareti bianche e rosa antico che trasuda di storia: l’ampio soffitto a volta sovrasta un tavolino in stile impero, circondato da sedie centenarie le cui gambe terminano con una zampa di leone. Stessa forma dei piedi dell’elegante divano giallo, le cui braccia diventano invece sfingi alate. Elemento quest’ultimo presente anche sugli specchi dorati, riportanti le iniziali CL: Carlo Lorusso (il nonno omonimo dell’attuale proprietario).
Ci spostiamo infine dinanzi a una parete con due foto che ritraggono la dimora a inizio Novecento. «Al tempo, prima dei lavori del 1959, l’edificio si ispirava allo schema di Villa Zeno di Palladio – spiega De Bartolo –: vi era un frontone triangolare, in cui era ricavata una loggia, che sovrastava un portico a tre arcate tipico del neoclassico eclettico di fine Ottocento. Dagli spioventi del frontone poi cadevano delle merlature simili a quelle dei letti a baldacchino baroccheggianti, come i cartigli e gli stemmi nelle chiavi d’arco».
Ma prima di salutarci Lorusso apre un ingiallito album fotografico che giace su un mobiletto antico. «Ecco un ritratto di zio Francesco Lattanzio – ci illustra sfogliando le pagine -, mentre quest’altra immagine immortala me da bambino al fianco dei miei genitori e mia sorella. Ogni angolo di questa villa parla della mia famiglia e della nostra storia: voglio che rimanga per sempre ancorata a quei ricordi».
(Vedi galleria fotografica)
Nel video, Villa Lorusso nel 1959:
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
I commenti
- Mariano Argentieri - Le mantovane in legno sagomate spioventi, usate talvolta in altre ville, come villa Aurora del conte Sabini o la casina del custode all'hotel Mercure villa Romanazzi, davano un che di chalet di svizzero. Un articolo molto ben curato e interessante. Complimenti.
- Emanuele Zambetta - Posto incantevole! Onore a chi ancora oggi si prende cura di questi luoghi! E visto che ci sono: approfitto per salutare la mitica Anna, instancabile ed ospitale operatrice culturale!