Il fotoreporter Carrozzo: «Racconto di Chanty, vive legata a una catena»
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giovedì 6 novembre 2014
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di Katia Moro
Dal 22 ottobre al 22 novembre, è in corso presso la Mediateca di Bari l’esposizione di uno dei suoi reportage realizzati in Congo: “Chanty. Storia di una catena”. Ne abbiamo parlato con l’autore nel Museo della fotografia di Bari dove, il 3 novembre, ha tenuto un workshop dal titolo: ”Professione reporter: paesi ad alto rischio e sicurezza personale”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Com’è nato il reportage in Congo?
Per tutti i reportage che ho realizzato in ogni parte del mondo sono debitore di una catena di “occhi” e “orecchie” disseminati un po’ ovunque che mi segnalano al momento giusto l’esistenza di storie valide da raccontare. In questo caso a far da tramite sono state le mie amiche suore di Brazzaville, in Congo. Quando ho sentito il loro racconto sono rimasto così colpito che mi sono subito messo in volo senza farmelo ripetere due volte. Per mia fortuna conosco un gruppo di facoltosi mecenati che tramite l’organizzazione di cene di gala finanziano questo tipo di progetti. Mi hanno fornito il sostentamento necessario e mi hanno detto: «Va’ ed emozionaci».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Qual è la storia di Chanty?
Chanty è una giovane donna figlia di un colonnello di Brazzaville. Nel 1997 quand’è ancora bambina, a causa dello scoppio della rivoluzione e la caduta del regime filorusso, è costretta a fuggire alla volta di Mosca al seguito della famiglia. Ma nel corso della fuga assiste accidentalmente al brutale assassinio, ad opera di rivoltosi armati di kalašnikov, della nonna e del fratellino che le sta in grembo: un trauma che la segnerà a vita. Consegnata a una famiglia belga che avrebbe dovuto farla studiare, la fanciulla inizia a mostrare segnali di forte squilibrio post traumatico. E così la mamma, abbandonata anche dal marito, decide di riprendersi Chanty e l’altro fratello rimasto in vita per tornare a Brazzaville.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ma qui le donne cominciano a subire la persecuzione degli oppositori all’ex regime e si nascondono nella dimenticata baraccopoli di Pot Pot. Nonostante ciò Chanty viene raggiunta, subisce violenze, e dà alla luce il piccolo Joshua. Ma la sua sempre più grave infermità mentale la induce a tentare di strozzare suo figlio e così per impedire ciò, la madre ed il fratello decidono di farla vivere per sempre legata a una catena.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Qual è il limite etico che un fotoreporter si pone di fronte a una simile storia?
Fare salva la dignità umana. È sempre questo il principio da cui parto. Io entro umanamente in contatto con la gente che ritraggo, non rubo la loro immagine ma condivido con loro che cosa denunciare al mondo intero e che cosa non mettere a nudo. Non a caso utilizzo sempre l’obiettivo grandangolare che mi permette di essere più vicino ai miei soggetti e di sentirmene parte integrante. E poi scelgo di realizzare le fotografie in bianco e nero o con il colore desaturato del 60%, perché non devono essere fotografie “belle” esteticamente, piacevoli alla vista, ma nuda cronaca del reale. Al termine del reportage, come d’abitudine oramai, scatto un selfie con i miei soggetti a sottolineare che “ci metto la faccia” in prima persona. (Vedi foto galleria)
È questa quella che lei definisce “fotografia sociale”?
Si, è una scelta politica. Significa accettare di ritrarre solo ciò che i soggetti stessi ti offrono da rappresentare e ti chiedono di denunciare, schierandosi dalla loro parte e mettendosi a loro servizio. Ho anche ricevuto un premio conferitomi dal Parlamento italiano per il ruolo sociale della mia fotografia che si pone in contrapposizione al modello del “fotoreportage del profitto”, cioè a coloro che svolgono questo mestiere solo per ricavarne un guadagno e per ottenere fama e prestigio dalla spettacolarizzazione del dolore. Io per esempio non partecipo mai a premi fotogiornalistici come il “World Press Photo”, in questi giorni allestito a Bari, e ho spesso polemizzato con riconoscimenti conferiti a immagini troppo crude e violente. Tengo anche a sottolineare che tutti i proventi del progetto “Chanty. Storia di una catena”, che è divenuto una pubblicazione oltre che una mostra che ha fatto il giro del mondo, li ho voluti devolvere in favore della famiglia di Chanty. In cambio ho solo chiesto, almeno per una volta, di vederla priva di catena. E così mi hanno regalato un’emozione incredibile.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Da dove nasce questa sua passione per i Paesi sottosviluppati?
Affonda le radici nella mia infanzia: io sono figlio d’arte perché anche mio padre era un fotografo. A dirla tutta sono convinto di essere stato addirittura concepito in camera oscura, dal momento che mia madre fungeva da assistente di mio padre. Ho iniziato a fotografare e stampare a soli sei anni, ma subendo i continui rimbrotti del mio severo ed implacabile padre. Con lui ho avuto un rapporto molto conflittuale e a un certo punto sono scappato da Ostuni e dalla mia famiglia per andare a studiare ottica e fotografia a Milano. Poi però mi sono rimesso sulle tracce di mio padre andandomi a ricercare le sue orme in Africa dove lui è stato da giovane. E da allora l’attrazione per quei paesi non mi ha più abbandonato. Ho compiuto il giro del mondo già un paio di volte e il mio passaporto non ha più spazi bianchi. Ma è soprattutto il mio animo che si arricchito di volti e storie incancellabili.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
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Katia Moro
Katia Moro
I commenti
- ernesto rossi - Certo che potea fotografare anche i poveri dell'Italia, magari di Taranto, anzi ci vorrebbe proprio una telecamera nascosta, per riportare la mostruosità nazista del Direttore della Mensa dei Poveri, organizzata dal Carmine, in via Cavour...