di Katia Moro

Il reporter Fabio Bucciarelli: «La fotografia documenta, non può porsi limiti»
BARI – Fino a che punto è giusto spingersi quando si fotografa? Un fotoreporter deve porsi dei limiti? È il dibattito che ha imperversato nel settembre scorso, in relazione alla tanto discussa immagine del corpo esanime di un bimbo siriano disteso sulla battigia dopo uno sbarco.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Ne abbiamo discusso con il 35enne fotoreporter torinese Fabio Bucciarelli, famoso per aver immortalato nel 2011 il corpo senza vita del dittatore libico Gheddafi (nell’immagine). Lo abbiamo incontrato a Bari, nella sede della scuola di fotografia “F.project”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Qual è il limite che un fotoreporter si deve porre quando scatta?

Nessuno. Il limite è la realtà stessa. Il fotoreporter deve documentare e la sua etica consiste nel denunciare ciò che accade, senza censure. Non c’è alcun limite alla rappresentazione della realtà a meno che non se ne voglia nascondere una porzione. Ma questo non sarebbe etico.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Hai immortalato il corpo senza vita di Gheddafi. La morte non può rappresentare un tabù?

Personalmente mi preoccupo di rispettare i vivi piuttosto che i morti. Nel caso di Gheddafi ovviamente non potevo non scattare: era mio dovere documentare un evento storico di rilevanza mondiale. Se sei in una situazione di conflitto non puoi evitare la morte, ne fa parte. La nota fotoreporter siciliana Letizia Battaglia ha magistralmente documentato la mafia a Palermo anche con immagini molto dure: cosa avrebbe dovuto fare? Nascondere la violenza della realtà? Non lo avremmo definito un atteggiamento vigliacco?

Quindi è giusto riprendere un suicida o una vittima di incidente stradale. E’ realtà anche quella…

Personalmente l’unico freno che mi impongo è il rispetto dell’essere umano: se mi si chiede di non riprendere una persona o una situazione e se comprendo che la mia foto potrebbe procurare dolore o disagio per un individuo, mi fermo. Certo se mi trovo di fronte a un corpo degradato evito di fotografare perché il limite che mi pongo è sempre quello di non ledere la dignità umana. Ma la vera domanda da porsi è: perché si scatta una foto? Se la motivazione è valida, se si ha il dovere di informare, di denunciare, è etico fotografare.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Poi però i giornali che pubblicano le foto possono operare delle censure...
 
Si, accade spesso, soprattutto con i giornali italiani. È per questo che in genere non amo lavorare con la stampa nazionale e prediligo quella americana e francese: sono molto più libere e indipendenti. In Italia i giornali sono quasi sempre legati a una fazione, che sia di tipo economico o politico e quindi non sono disposti a mostrare tutto e operano delle censure.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)


È solo un problema di filtri editoriali o anche di ruolo subalterno in cui si relegano le immagini?

Anche. In Italia non c’è un’adeguata cultura fotografica, non si dà il giusto spazio all’immagine che viene sempre considerata inferiore rispetto alla parte scritta e il fotoreporter non è valutato alla stregua del giornalista. Il “Corriere della Sera” una volta mi ha stravolto la foto con cui ho ottenuto il “Robert Capa Gold Medal”, intitolata “Battle to death” e raffigurante ribelli feriti siriani trasportati in ospedale, con un ragazzo sanguinante che si intravede all’interno di una porzione di spazio ritagliata dai corpi di altri. L’immagine orizzontale è stata drasticamente tagliata in una striscia verticale che annullava la composizione e il suo significato originale.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Come hai reagito?

Rifiutandomi di continuare a collaborare con buona parte dei giornali italiani e fondando “Memo-mag” (il magazine della memoria in movimento), una cooperativa di fotografi di fama internazionale, impegnati nella diffusione di una informazione indipendente basata sui diritti umani. Noi pubblichiamo liberamente e privi di filtri tutto ciò che gli altri giornali non hanno voglia e coraggio di stampare, con una particolare attenzione alla denuncia del mancato rispetto dei diritti umani.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)

Un’ultima domanda: come si riesce a conciliare questi principi etici con l’inevitabile commercializzazione della fotografia?

Se il mio obiettivo è quello di informare, di arrivare a più persone possibili affinché sappiano cosa accade realmente nelle zone di guerra lontane mille miglia, vendere le mie fotografie diventa etico, oltre che utile e necessario. Quindi non mi pongo nessun problema di coscienza se è quello il modo per arrivare alla gente e sensibilizzarla. D’altra parte si può fare informazione in mille modi non solo vendendo immagini a un giornale: una fotografia può essere diffusa anche tramite una mostra, un libro, un workshop aperto al pubblico. Io ho scelto di essere un free lance e quindi non vengo inviato da una testata: scelgo autonomamente le mie storie, decido che cosa documentare e in quale modo e poi a quale canale di divulgazione sottoporle. Non sono costretto a contrattare.


© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita



Scritto da

Lascia un commento


Powered by Netboom
BARIREPORT s.a.s., Partita IVA 07355350724
Copyright BARIREPORT s.a.s. All rights reserved - Tutte le fotografie recanti il logo di Barinedita sono state commissionate da BARIREPORT s.a.s. che ne detiene i Diritti d'Autore e sono state prodotte nell'anno 2012 e seguenti (tranne che non vi sia uno specifico anno di scatto riportato)