I segreti e le tecniche del rito più barese che c'è: il "miracolo" dell'arricciatura del polpo
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venerdì 25 giugno 2021
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di Marco Montrone e Giulia Mele - foto Antonio Caradonna
Si pensa che la passione dei baresi per il “crudo di mare” abbia origine nel Neolitico, quando a seguito di una crisi climatica il cibo cominciò a scarseggiare e i molluschi diventarono così la base della dieta delle antiche popolazioni baresi.
Del resto questo cefalopode (spesso chiamato erroneamente “polipo”) ha una grande versatilità in cucina. A Bari quelli piccoli vengono mangiati crudi, i medi arrostiti o fritti e quelli più grossi a “insalata” (lessi e conditi con olio, aglio e prezzemolo) o al sugo (con la cipolla, che come si dice è “la morte sua”). Ragion per cui, soprattutto d’estate, viene scatenata una vera e propria caccia all’octopus vulgaris, pescato sia dalla barca che sott’acqua.
Per stanarlo dalle tane in cui vive viene utilizzata la cosiddetta “polparola”, realizzata legando a una lenza in nylon un’esca che può essere un crostaceo artificiale, una “pelosa” (il granchio favollo) o addirittura (specie se si è in barca) una zampa di gallina. In tutti i casi viene aggiunta anche una busta o uno strofinaccio bianco, utile ad attirare il “curioso” animale.
E una volta catturato, il polpo per essere poi portato in tavola deve essere necessariamente “arricciato”. Il punto però è: in che modo? Perché non ci sono manuali d’istruzione per apprendere la tecnica che permette al mollusco di divenire tenero e “croccante” al tempo stesso. D’altronde in questo caso non si è nemmeno davanti a una conoscenza tramandata attraverso la tradizione orale. A Bari infatti si è sempre imparato a “sbattere” il polpo solo attraverso l’osservazione dei più esperti, che siano essi pescatori o propri parenti.
Non risulta quindi facile “mettere su carta” un vadedecum sulla perfetta arricciatura, ma noi, aiutati anche dal testo “La cucina della Terra di Bari” scritto nel 1991 dallo studioso di enogastronomia Luigi Sada, ci abbiamo provato, fissando le “leggi” e i segreti su cui si basa questa antica pratica.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Antica, sì, perché una sua attestazione viene fornita già nel II secolo d.C. ad opera dello scrittore egizio Ateneo di Naucrati, che riporta la frase: Plecté poliùpodos piléses, traducibile come “Tentacoli di polpo sbattuto”. Del resto anche in una Decretazione decurionale di Bari datata 24 ottobre 1513 è fatta menzione del “pulpo rizzuto”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Bene, dopo aver ucciso il cefalopode rivoltandogli completamente la testa (o addirittura dandogli un morso al capo), è necessario trovare uno scoglio o una superficie più liscia possibile, per evitare di rovinare le carni dell’animale. In città il luogo dove è più facile assistere a millenario rito è il Molo San Nicola, detto N-dèrr'a la lanze, lì dove alcune piatte banchine vengono utilizzate dai varcheceddàre (i pescatori notturni) per arricciare molluschi appena catturati a bordo dei loro gozzi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Individuato il “posto di lavoro” il mollusco va obbligatoriamente prima pulito. Si tolgono così la bocca, gli occhi, la sacca dell’inchiostro e le interiora (tra cui la “malandra”, ovvero il fegato che in alcuni casi può essere recuperato e fatto fritto).Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
A quel punto si procede con la prima fase, quella più importante e “coreografica”: lo “sbattimento”. Il polpo è scaraventato con forza sullo scoglio per decine di volte, allo scopo di allargare e schiacciare le fibre muscolari, così da ammorbidirle. È un’operazione faticosa, soprattutto se si ha a che fare con esemplari che superano il chilo di peso.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Per eliminare qualsiasi residuo di “durezza” dal corpo dell’animale, si fa seguire uno sbattimento più “delicato”: si adagia il polpo sulla superficie e si percuote con una paletta di legno rettangolare.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
A questa azione si accompagna la “schiumatura” o “sbavatura”, durante la quale l’octopus viene “accarezzato” sulla roccia con un movimento ondulatorio in modo che perda la più grande quantità possibile di acqua propria, sostituita da quella del mare spruzzata dal pescatore.
Come esito si ha però un prodotto non ancora mangiabile (soprattutto se crudo), perché ancora troppo “viscido”. Il mollusco infatti una volta portato in tavola deve essere sì tenero, ma allo stesso tempo “croccante”: calloso e compatto.
Per ottenere questo risultato va quindi “arricciato” utilizzando una busta, un secchio o meglio ancora un cesto di vimini.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il polpo viene “cullato” pazientemente con un movimento altalenante e sussultorio: un atto che pian piano conduce al “miracolo”. Gli otto tentacoli si ripiegano infatti su se stessi e si contorcono, diventando appunto come dei “riccioli” di capelli. Si trasformano così nei cosiddetti “cirri”, pronti per essere gustati, regalando al fortunato commensale il vero sapore di Bari.
(Vedi galleria fotografica)
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
I commenti
- Vincenzo Lorusso - Molto interessante. Lo sarebbe stato ancora di più se aveste inserito qualche foto che illustra le operazioni di eliminazione delle parti di scarto, prima dell'arricciatura.