Da "Lascia fare a Dio" a "Jesse e Trase": all'origine dei nomi più particolari di Bari Vecchia
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martedì 10 dicembre 2024
di Gaia Agnelli - foto Paola Grimaldi
BARI – Lascia fare a Dio, Middorusso, Masciare, Albicocca, Trecantaie, Jesse e Trase. Questi sono solo alcuni dei caratteristici nomi che contraddistinguono archi, corti e piazze di Bari Vecchia. Sì perché, a differenza della città “nuova” dove l’intitolazione dei luoghi trae origine da persone illustri e fatti storici, nella città vecchia le denominazioni dei posti rimandano a leggende popolari e personaggi folkloristici, il cui racconto è giunto sino ai giorni nostri.
Siamo così andati a passeggiare tra le stradine del centro storico alla scoperta dei luoghi dai nomi più particolari. (Vedi foto galleria)
Il nostro giro parte dal suggestivo Largo Albicocca. Quello che un tempo fu probabilmente un teatro romano all’aperto, deve il suo peculiare nome a un albero da frutto che leggenda vuole fu piantato qui dai saraceni, durante la dominazione di Bari avvenuta tra l’847 all’871. L’albicocco è simbolo di rinascita e guarigione.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Superiamo ora un arco posto all’estremità nord-est del largo per accedere a un luogo dal nome decisamente originale: Corte Lascia Fare a Dio. «Deriva dalla famiglia barese che qui aveva dimora, i La Disa - spiega il 75enne Nico Dellino, esperto di storia locale -. Uno di loro in particolare, Giò Batta, era solito concludere ogni suo discorso con l’esclamazione lasse fà a crìste (lascia fare a Cristo). E così quel detto divenne il soprannome della famiglia e di conseguenza del posto dove abitavano, che ancora oggi è chiamato con il particolare nomignolo».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Da qui, attraverso l’Arco Alto, raggiungiamo piazza Federico II e arriviamo all’incrocio con strada Nuccia Serra: un vicolo dove regna il misterioso, gotico e a tutto sesto Arco delle Streghe (detto anche “u-àrche de la Masciàre”). Il suo nome lo si deve a una macabra leggenda secondo la quale di notte qui si riunivano maghe e fattucchiere (le gatte masciàre), per praticare arti oscure e celebrare cerimoniali in onore di Satana.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
L’arco è ubicato in un’altra corte dal nome singolare: Corte Cavallerizza, così intitolata per via della presenza qui, nel 500, delle scuderie dei soldati a cavallo di Bona Sforza.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Imbocchiamo ora strada Tancredi che ci porta verso la Cattedrale, incrociando però prima Corte Trecantaie introdotta da un arco di colore rosa. «Il toponimo deriva dalla famiglia Romanelli che vi viveva – ci illustra Dellino -. I suoi membri erano fisicamente molto corpulenti e di conseguenza furono soprannominati “cantari”, come i grossi contenitori per il vino e l’olio».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Siamo ora in piazza dell’Odegitria, dove si staglia l’alto Arco della Neve. Presenta sotto la volta l’ingresso di un’abitazione privata: probabilmente quella che tra il 700 e l’800 rappresentava l’entrata del locale sotterraneo dove operavano gli “insaccaneve”. Perché sì, c’è stato un tempo in cui a Bari si vendeva la neve, dopo essere però passata allo stato solido di ghiaccio, il quale veniva conservato in grandi sacchi di paglia e saggina. Serviva per curare infezioni, ascessi, contusioni, infiammazioni e febbre. Nei mesi estivi era poi fondamentale per conservare gli alimenti e perché no, per preparare gelati, sorbetti e granite.
Ci spostiamo ora alle spalle della Cattedrale, ritrovandoci su Largo San Sabino. Da qui imbocchiamo la strada che porta a Largo Chiurlia, denominata Corte Colaguano. Deve l’origine del toponimo a un tale Cola (Nicola), che viveva qui. Di professione faceva il “gualano”, ovvero il lavoratore agricolo a contratto annuo che si occupava delle terre e degli animali.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ora da Largo San Sabino imbocchiamo strada San Gaetano per giungere dopo pochi passi all’ombra del leggendario Arco Meraviglia. Si tratta di un raffinato passaggio in pietra realizzato nel Medioevo e poi rimodulato secondo lo stile cinquecentesco dalla famiglia dei Maraveglia (o Mareviglia). In realtà però il suo nome viene collegato, più che alla nobile stirpe, a un fiabesco aneddoto che vede come protagonisti due innamorati. I due, pur abitando l’uno di fronte all’altro, avevano il divieto di incontrarsi. Ma una notte avvenne la “meraviglia”: il giovane in poche ore costruì un piccolo cavalcavia che collegò le due residenze, permettendo così finalmente agli amanti di abbracciarsi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Da qui proseguiamo su strada Zonnelli: via che conduce al portone “de jesse e trase” (tradotto: “esci ed entri”). Si tratta di un passaggio ad arco che consente l’accesso in Corte Zeuli, inserita nell'omonimo palazzo rinascimentale del 1598. L’arco si chiama così perché fu chiuso dalla famiglia faentina Zeuli (che nel 1787 aveva acquistato il complesso dai Fanelli) per consentire l’accesso alla corte solo a chi avesse il loro permesso.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ci spostiamo infine in piazza San Nicola, dove sorge l’omonima basilica romanica. Superiamo l’Arco Angioino e giriamo a destra per strada Dei 62 Marinai per poi svoltare subito a sinistra su strada Quercia. Dopo aver fiancheggiato la leggendaria capa du turchie (la testa mozzata del baffuto governatore saraceno Mufarrag), entriamo nella piccola Corte Middorusso. Lo spiazzo deve il nome a colui che un tempo l’abitava. Si trattava di tale Emilio (in dialetto Midde) che aveva i capelli di colore rosso. Da qui “Middorusso”.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ritorniamo infine su strada Dei 62 Marinai per proseguire questa volta dritto fino a incrociare sulla sinistra l’Arco San Rocco, chiamato u u-àrche inde o u u-àrche (l’arco nell’arco). Basso e rustico si biforca infatti in altri due archi, che conducono in due diverse corti, tra cui Corte Garritta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
«Questa – conclude Dellino - nel XI secolo era chiamata “Corte di San Salvatore al Gulfo”, perché nel Medioevo la zona era bagnata dall’Adriatico presentandosi così come una sorta di golfo (il “Mar di Cafaro”). Luogo che era sorvegliato da una sentinella sistemata appunto in una garitta, la quale lanciava l’allarme nel caso di arrivo di invasori dal mare».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
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