Le antiche e sopravvissute strade rurali di Bari, lì dove il tempo si è fermato
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lunedì 23 novembre 2015
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di Cassandra Capriati
Eppure, c’è un angolo di territorio barese, stretto tra i quartieri periferici di Japigia e Mungivacca e il paese di Triggiano, nel quale il tempo sembra essersi fermato. Una zona in cui a dominare sono ancora alberi, prati, fiori, frutti e terreni e dove è possibile ritrovarsi a faccia a faccia con la natura, pur essendo a poche centinaia di metri dalla città.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
In quest’area si snodano numerose stradine rurali e vicinali, che collegano i vari fondi tra di loro e che in passato erano il modo più facile per raggiungere Bari da Triggiano (e viceversa). Alcune di esse sono molto antiche e nascondono non solo tesori naturalistici, ma anche architettonici e storici, come centenarie masserie e dimore storiche.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Noi abbiamo percorso tre di queste vie: strada Crocifisso, strada rurale Rafaschieri e strada vicinale Torre di Mizzo. E questo è il nostro racconto. (Vedi foto galleria)
Per imboccare strada Torre di Mizzo è necessario arrivare in quell’area di Mungivacca che sorge all’ombra dell’Ikea, lì dove ci sono fabbriche abbandonate, ex discoteche e il cosiddetto “cimitero dei rotabili”. La strada parte già da via Amendola, per poi oltrepassare i binari delle ferrovie Sud-Est, superare alcuni bassi caseggiati e, dopo aver costeggiato un circolo di equitazione, immergersi a quel punto in piena campagna.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La sensazione di trovarsi “in un altro luogo” ci viene data subito da un vecchio cancello arrugginito posto all’inizio di una ridente distesa d'erba. La solitaria cancellata sembra quasi far da portale all'entrata in un altro mondo o in un'altra epoca, fatta di grandi distese di campi coltivati, di antichi ulivi, di fichi d’india e di vigne che vengono coltivate con sudore, pazienza e tanto duro lavoro.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
In questo viaggio indietro nel tempo abbiamo il piacere di incontrare il signor Cesare, un loquace 77enne che ci racconta dei vari problemi del lavoro nei campi. In particolare l’anziano signore ci confida quello che è il suo più grande cruccio. «Non ne posso più delle pecore che arrivano da strada Pezze del sole – si lamenta l’uomo. – Si mangiano praticamente tutto il raccolto, ho anche fatto mettere questi fichi d’india - ci indica le piante alle sue spalle - proprio per evitare che entrino, ma continuano a pascolare ovunque».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Lasciamo Cesare e continuiamo il nostro cammino. Su entrambi i lati dominano grandissime distese di campi arati, tanto che il marrone è improvvisamente diventato il colore predominante. Ed è proprio su questa immensa distesa che torreggia l’unico edificio dei dintorni: una costruzione in pietra dall’aria decisamente antica. La struttura ha quasi l’aspetto di un vecchio casolare abbandonato, non è molto alta, anche se una delle due parti dell’edificio è leggermente più elevata rispetto all’altra.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Nelle vicinanze della struttura individuiamo una piccola vettura. Decidiamo quindi di inoltrarci alla ricerca dei possessori del mezzo, per chiedere loro maggiori notizie in merito. Li incontriamo poco più avanti, intenti a raccogliere quelle che a prima vista sembrano barbabietole. Si tratta di una coppia di contadini, un uomo e una donna: il capo di quest’ultima è coperto da un fazzoletto bianco. L’uomo ci dice che l’edificio è Torre di Mizzo, la proprietà che dà il nome alla strada.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La costruzione, che ora funge da deposito per gli attrezzi, sembra che risalga al XV secolo. Sarebbe stata fatta erigere da Antonio de Charis, vescovo di Castellaneta che dopo aver svolto una importante missione diplomatica per conto del Re Ferdinando D’Aragona, decise di utilizzare la somma guadagnata dall’incarico per far costruire la “torre” e comprare i territori intorno ad essa.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Oltrepassiamo Torre di Mizzo e proseguiamo lungo la strada, che diventa sempre più stretta. Pian piano gli spogli campi iniziano a popolarsi di ulivi, molti dei quali ancora carichi dei loro frutti che attendono di essere colti. All’improvviso, sorge inaspettata la punta di un altro edificio in pietra. Ci avviciniamo per osservarla meglio, si tratta di un’antica dimora a due piani, meno alta rispetto alla costruzione precedente, ma decisamente più grande: possiede infatti anche un cortile interno. Sfortunatamente è quasi impossibile addentrarvisi visto che già il cortile è ricoperto di montagne di calcinacci, vetri rotti e rifiuti di vario genere. Un po’ delusi e un po’ incuriositi ci domandiamo chi abbia lasciato sfiorire questa bella tenuta.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La risposta a questo quesito ci viene fornita di lì a poco, quando giungiamo a quella che sembra essere la fine della strada. È qui che incontriamo l’affabile 70enne Giuseppe, che si trova lì in quel momento per raccogliere le olive. «Non ne so molto – afferma l’uomo – ma ricordo che l’edificio è di proprietà dei Di Cagno Abbrescia. Ormai è completamente abbandonato a se stesso e al suo interno vengono spesso ritrovate ruote di macchine bruciate o altri strani oggetti».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Giuseppe inoltre ci conferma che strada Torre di Mizzo finisce lì con il suo fondo, che appartiene alla sua famiglia da quando ha memoria, anzi con una punta di orgoglio che gli fa brillare gli occhi aggiunge: «Mia madre quando era giovane viveva proprio in questa via, ed è nata proprio dove c’è quell’ulivo, che è il più vecchio di tutta la zona».Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Salutiamo l’uomo, rifacciamo la via al contrario e una volta giunti a metà imbocchiamo a sinistra Strada rurale Rafaschieri, la seconda meta del nostro viaggio. La stradina parte da Japigia, dietro ai campi di calcetto (nei pressi della più alta antenna di Bari) e si snoda per circa tre chilometri. Dal punto in cui ci immettiamo ci troviamo quasi a metà della strada.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Inizialmente, con i suoi campi coltivati, la via ricorda molto la precedente. Presto però questi vengono sostituiti da immense distese di erba, dal color verde brillante. Nonostante sia autunno, la vivacità dei colori dà la sensazione di trovarsi in realtà in primavera, quando la natura lentamente inizia a mostrare i propri gioielli dopo il gelo dell’inverno. Le diverse gradazioni di verde della vegetazione che si sposano tra loro alla perfezione, sembrano quasi pennellate di un quadro di un abile pittore e il paesaggio complessivo è così sereno e gradevole alla vista, che non ci si stanca di ammirarlo.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il verde acceso dopo un po’ lascia il posto ad un giallo che ci coglie assolutamente impreparati, quello creato da un’enorme distesa di piccole margherite. Sembra quasi incredibile che una tale allegra macchia di colore sia sorta in maniera totalmente spontanea. Lentamente però il paesaggio inizia a cambiare e a diventare leggermente più cupo, mentre la strada inizia a diventare ancora più stretta. Così il prato si tramuta nuovamente in terra e gli ulivi ritornano ad essere i padroni indiscussi della via.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Continuiamo il nostro cammino e tra i campi coltivati vediamo spuntare in lontananza una grande dimora in pietra circondata da alte mura. Comprendiamo presto che si tratta di Torre di Reddito, una delle 14 antiche masserie presenti ancora a Bari. La struttura oggi si presenta nella sua veste settecentesca, ma in realtà risale al XVI secolo, quando Isabella D'Aragona, duchessa di Bari, la fece costruire per poi donarla a Enrico Tanzi, conte palatino e console generale di Milano. Uno dei suoi antenati poi, Carlo Tanzi, iniziò nel 1790 una imponente opera di ristrutturazione che le ha donato l’aspetto attuale.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
La residenza a due piani, con le sue mura di cinta e con l’imponente ingresso sormontato da un portale con arco a tutto sesto, costituisce una delle poche dimore monumentali della zona. Vorremmo tanto poterla visitare dall'interno, ma l'alto cancello con la sua ancor più alta e insormontabile recinzione, continuano a svolgere con precisione il compito per cui erano stati creati tanti anni fa: tenere lontani gli estranei. Quindi tutto ciò che possiamo fare è scattare qualche foto attraverso le piccole sbarre della cancellata.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Il nucleo principale è costituito da una costruzione a due piani a carattere decisamente residenziale: sul prospetto principale c’è un piccolo ingresso, mentre al piano superiore si distinguono tre finestre architravate. Posto invece leggermente al di sopra del varco d’accesso si intravede ancora la traccia dell’antico stemma dei Tanzi. Affianco alla parte residenziale, una costruzione più bassa che non presenta particolari elementi architettonici.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Abbandoniamo a malincuore l'antica dimora e percorriamo l’ultimo tratto del sentiero che ci resta. Da Torre di Reddito sbuchiamo direttamente su strada Crocifisso, l’ultima, ma non meno importante tappa del nostro viaggio. Imbocchiamo la via a sinistra, in direzione Bari (a destra si va infatti a Triggiano) e ci imbattiamo subito in un edificio in pietra a due piani, la cui parte superiore doveva originariamente essere di un bel colore rosso, che ora è solamente intuibile, mentre il piano inferiore mantiene il colore originario della pietra. Le finestre e gli ingressi sono quasi completamente murati. La dimora ospita un simpatico cagnolone che con i suoi teneri occhi ci guarda al di là della cancellata che impedisce l’accesso al cortile interno dell’edificio.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Avanziamo di poco, quando nelle vicinanze scorgiamo un'altra curiosa costruzione in pietra. È un edificio non molto alto, affiancato da una piccola chiesetta. Nonostante però l’edificio sia in disuso e le porte in legno della chiesa rotte e pericolanti, la chiesa non sembra abbandonata, visto che al suo interno si intravedono dei ceri accesi.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Proseguiamo, circondati da muretti a secco, filari di vite, ulivi, cipressi, querce e pini marittimi che si stagliano alti contro il cielo. Oltrepassiamo poi un passaggio a livello, dopo il quale notiamo un notevole ristringimento della via. Vediamo spuntare inoltre in lontananza anche altre residenze in pietra, in particolare una dimora che si staglia netta all’orizzonte. Avanziamo ancora e la facciata dipinta di un rosso vivo di una piccola casa cantoniera ci preannuncia l’arrivo di un secondo passaggio a livello.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
Ora riusciamo a vedere chiaramente le macchine che sfrecciano lungo la tangenziale. Superato questo punto iniziano infatti a sorgere i primi edifici e capannoni industriali. E proprio dopo aver superato questi ultimi, sbuchiamo quasi all'improvviso dritti all’interno del parcheggio dell’Ikea, ritornando così nel punto da cui eravamo partiti o meglio, scappati, anche se solo per un paio d’ore.Notizia di proprietà della testata giornalistica © Barinedita (vietata la riproduzione)
(Vedi galleria fotografica di Gennaro Gargiulo)
© RIPRODUZIONE RISERVATA Barinedita
Scritto da
Cassandra Capriati
Cassandra Capriati